La Chiesa è stata accusata di non aver capito le ragioni dell’economia e di aver avversato l’uso della finanza condannando, per troppo tempo, il prestito con interessi (denominato “usura”). Vediamo come si spiega questa convinzione, quanto è vera e la sua realtà attuale.
Nel pensiero classico c’era la convinzione che il danaro fosse sterile e non potesse produrre un valore per il suo uso nel tempo. Platone e Aristotele consideravano l’interesse sul prestito qualcosa senza senso, innaturale. Anche nella lex romana il famoso mutuum era gratuito (in assenza di patti contrari che dovevano esser provati). Nei primi secoli cristiani la guerra all’usura fu sostenuta dai primi Padri della Chiesa, quelli greci (Basilio, Giovanni Crisostomo) e latini (Ambrogio, Agostino) e durò fino a tutto il Medioevo, fondata sul timore di decadenza morale per avarizia. Ben due Concili la condannarono, quello di Cartagine (345) e quello di Aix (789). Più tardi fu proibita dal terzo Concilio Lateranense (1179) e dal secondo Concilio di Lione (1274). Nel concilio di Vienne (1311) addirittura fu dichiarato eretico chi avesse negato fosse peccato richiedere interessi sui prestiti.
L’origine di questa avversione al prestito oneroso si trova in parte nell’Antico Testamento (Es 22,25; Dt 23,20ss; Lv 25,35) dove si vieta la riscossione di interessi per prestiti a fratelli (permettendo invece di richiederlo ad altri). L’Antico Testamento aveva ragione. Chi prestava danaro aveva infatti a garanzia il debitore stesso e la sua famiglia (Ger 34,8ss), pertanto l’insolvenza poteva produrre la schiavitù. Così il prestito oneroso fu condannato dai Profeti (Isaia e Geremia), ma implicitamente il divieto era già nel Decalogo: il “non desiderare la roba d’altri” era rivolto anche ai creditori che potevano vantare diritti (sproporzionati) sui beni dell’insolvente. Nel Nuovo Testamento l’unica fonte (interpretabile e molto discussa) di condanna del prestito ad interesse si trova in Luca 6, 34-35, dove Gesù dice: «se prestate danaro a coloro dai quali sperate di ricevere [un qualche tornaconto] che merito ne avrete?». Nella parabola dei talenti, però, (Mt 25,14-30), il padrone rimprovera il servo di non aver fatto fruttare il talento ricevuto, almeno dandolo ai banchieri grazie ai quali «avrei ritirato il mio con l’interesse». È evidente che “l’interesse” sull’impiego del danaro era un problema reale, pratico. Tutto ciò spiega perché il prestito ad interesse preoccupasse la Chiesa: il comandamento dell’amore per il prossimo doveva regolare ogni azione umana, più del mercato e dell’economia.
Non è che questo comandamento sia nei secoli cambiato, sono cambiati piuttosto il mercato e le dottrine economiche.
Con la scoperta del Nuovo Mondo nascono i commerci, con l’esigenza di grandi capitali finanziari. Prima il prestito era quasi un fatto privato, fra due persone; con la nuova economia diventa istituzionale. Finisce la mentalità moralisticocollettiva del Medioevo e nasce quella individualistica che percepisce la ricchezza quale virtù. Sul problema dell’usura si confusero in tanti, anche gli Scolastici, che pur avevano capito la differenza tra prestito produttivo (perciò opportuno) e quello per il consumo (allora più biasimato che è invece quello opportuno oggi per sostenere lo sviluppo consumistico attuale). Lutero lo condannò mentre Calvino lo giustificò (e avviò il successo delle banche svizzere). La Chiesa continuò a “preoccuparsene” fino al 1745, quando Papa Benedetto XIV nell’enciclica Vix Pervenit riconosce l’utilità dell’uso del danaro e la liceità degli interessi.
Qual è la realtà odierna dell’usura? Io, provocatoriamente, penso che oggi “l’usura” vera è nella remunerazione del risparmio anziché nel costo dei prestiti, remunerazione che (troppo spesso) neppure copre il tasso di inflazione o presuppone rischi troppo alti, e consuma il risparmio, risorsa sacra per la libertà dell’individuo.
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