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14.12.2024

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Vacanze: due valigie e un po’ di libri
31 Gennaio 2014

Vacanze: due valigie e un po’ di libri

 

 

Durante le così tanto sospirate ferie, è certamente salutare dedicarsi anche alla lettura. Il Timone suggerisce qualche autore. Conoscerli, farà bene alla salute. Dell’anima e della mente

Organizzare la lettura estiva di romanzi, novelle e racconti è roba da persone di grande praticità, dote di cui sono quasi completamente sprovvisto. D’altra parte, qui non ci si può limitare al suggerimento di un elenco di titoli e di recensioni, bisogna enunciare un metodo. A vostro rischio e pericolo.
Dunque, se volete fare come faccio io, per prima cosa, procuratevi una valigia di media grandezza. Si dice valigia, ma se state a casa vanno bene anche uno scatolone o un po’ di spazio ricavato in una angolo tranquillo della casa. Fatto ciò, procuratevi un’altra valigia della stessa grandezza, per la quale valgono le alternative riportate sopra.

Da Solgenitsin a Eugenio Corti

Non aprire la valigia dei classici, ha i suoi vantaggi. Per esempio, sono ormai trent’anni che la mia è sempre la stessa e mi aspetta già pronta da un’estate all’altra. Così ho tutto il tempo per lavorare su quella di fatica senza risparmiare il sudore. Per quindici giorni di ferie, accatasto roba come se dovessi star via sei mesi. Al massimo, leggerò un romanzo, forse due, ma non fa niente, l’importante è partire con la valigia piena e la coscienza tranquilla.
Confesso che anche quest’anno ho iniziato i preparativi barando. Ho dirottato un classico come Arcipelago Gulag (Mondadori) di Aleksandr Solgenitsin dalla valigia dei classici, a cui sarebbe stato destinato di diritto, a quella di fatica. L’ho fatto perché voglio veramente rileggermi questi tre volumi che narrano con chiarezza inaudita la natura intrinsecamente malvagia del comunismo. Che non è affatto una buona idea applicata male, ma una cattiva idea applicata bene. Imperdibile, se volete dare il senso alla vostra estate con un’opera sola.
Chi si fa intimorire dai tre volumi di Arcipelago Gulag, può orientarsi su Processo e morte di Stalin (Ares) di un grande italiano come Eugenio Corti. Da lì, se non lo ha già fatto, potrà passare al capolavoro dello scrittore brianzolo, Il cavallo rosso (Ares).
Se amate la storia, non potete perdervi Louis De Wohl, un autore che fa genere per conto proprio con le biografie romanzate di grandi personaggi della Cristianità. Due titoli su tutti, La città di Dio (Rizzoli) e La liberazione del gigante (Rizzoli), il primo dedicato a San Benedetto e il secondo a San Tommaso d’Aquino. Da portare assolutamente se siete in vacanza tra Lazio e Campania, sui luoghi che
fanno da cornice alle storie.

La valigia dei classici e la valigia di fatica

Se avete seguito fedelmente le istruzioni, ora avrete due problemi: due valigie di media grandezza in attesa di essere riempite di libri rigorosamente di narrativa.
Per quanto riguarda la prima, è presto detto: consideratela la valigia dei classici e il problema sarà risolto per voi e per me. Non c’è bisogno di un articolo per consigliare Manzoni, Cervantes, Balzac, Stendhal, Goethe, Dickens o Dostoevskij. Giusto qualche riga per avvisare che, tra i classici perbene, i classici che corroborano l’anima, io considero anche il Guareschi di Mondo piccolo (Rizzoli) il Chesterton di Padre Brown (Morganti), il Tolkien del Signore degli Anelli (Bompiani) o il Saint Exupery del Piccolo Principe (Bompiani). Per non sbagliare, procuratevi anche la guareschiana Calda estate del Pestifero (Rizzoli), i chestertoniani Paradossi di Mr. Pond (Lindau), le tolkieniane Avventure di Tom Bombadil (Bompiani) e la saintexuperyana Cittadella (Borla): sono meno conosciuti degli altri titoli, ma altrettanto buoni. Però, se fate come me e vi guarderete bene dall’aprire la valigia dei classici, questi quattro metteteli subito nell’altra, che chiameremo la valigia di fatica, dove stiperete tutto quello che avete intenzione di leggere davvero. Se non lo avete mai letto, aggiungeteci tutto il meglio del quartetto Guareschi-Chesterton-Tolkien-Saint Exupery.

L’umorismo è una cosa seria
Quando mi accorgo di aver cominciato a stipare la valigia di fatica con libri non certo da ombrellone, ormai è tardi: il meccanismo del trafelato lettore estivo che vorrebbe guadagnare in due settimane il tempo perduto in un anno è scattato inesorabilmente. Così finisco sempre per riempire anche la seconda valigia di classici e persino di saggi. Urge inoltrarsi in filoni più distensivi.
Per quanto riguarda l’umorismo, filone distensivo per eccellenza, è presto detto. Non ci sono libri contemporanei capaci di farmi ridere in modo intelligente e sano. Non ci sono autori capaci di far ridere di cuore, salvo uno che sta a Napoli e si chiama Marcello D’Orta. Dal celebre Io speriamo che me la cavo (Mondadori) a Dio ci ha creato gratis (Mondadori), fino ai più recenti Nero napoletano (Marsilio) e Era tutta un’altra cosa (Giunti), questo scrittore sa mostrare come le cose e le parlate quotidiane diventano divertenti là dove rimarcano l’attenzione che gli uomini hanno sempre riservato al buon Dio.
Insomma, l’umorista deve essere serio, ma oggi, a parte rare eccezioni, sono tutti dei pagliacci. Chi voglia ridere di cuore deve rifarsi con gli inossidabili Guareschi e Chesterton. Il “Chesterton italiano” vi sorprenderà con Il destino si chiama Clotilde (Rizzoli) e Il marito in collegio (Rizzoli), mentre il “Guareschi inglese” lo farà con L’osteria volante (Bompiani) e L’uomo che fu Giovedì (Bompiani). Nel Destino si chiama Clotilde è da leggere, rileggere e ri-rileggere la “Digressione” ambientata nella Pampa argentina, un vero ordigno umoristico di quelli che si costruivano una volta. Nell’Uomo che fu Giovedì, gustatevi l’elogio dell’orario ferroviario presentato come la più grande rappresentazione della più stupefacente tra le avventure: il fatto che un treno arrivi ogni volta nella stazione giusta. Se mandate a memoria l’uno e l’altra, potrete tenere brillantemente la conversazione nei consessi più impegnativi per tutto l’anno a seguire.

Tutti i colori del giallo
Esaurita la pratica intestata all’umorismo, vi spiego come mi regolo con i gialli.
Senza per questo disprezzare la Miss Marple (Mondadori) di Agatha Christhie o il Nero Wolfe (Mondadori) di Rex Stout, nella valigia giusta finisco sempre per mettere almeno un volume dei Racconti di Padre Brown e le avventure di un altro fra i tanti detective inventati da Chesterton, per esempio il Basil Grant del Club dei mestieri stravaganti (Guanda): se si vuole condurre la ragione fino davanti al mistero e farvela inginocchiare, con questi non si sbaglia mai. Poi ci metto una bracciata abbondante delle Inchieste di Maigret (Adelphi), lette e rilette almeno una decina di volte l’una. Non fa niente se si conosce già il finale, il bello sta nel seguire passo a passo il lavoro di un uomo che si è trovato a fare il commissario ma, se si fosse potuto inventare un mestiere su misura, avrebbe “voluto fare il riparatore di destini”. I miei preferiti, fra i settantacinque romanzi e i ventotto racconti di Georges Simenon, sono Maigret esita, Firmato Picpus, La balera da due soldi, Il cavallante della Providence, Maigret si confida, Maigret e i vecchi signori. Ma qui ognuno segue vie sue e si immerge come meglio crede in una Parigi e in una provincia francese che, forse, ci sono ancora. Ne sortisce un effetto così tattile che leggere Simenon mi fa tornare la voglia di accendere la pipa, esattamente come leggere Guareschi mi fa sentire la nostalgia del toscano. Miracoli della grande letteratura.
Ma attenzione, si sta parlando del Simenon di Maigret. Perché quello dei “non Maigret” è di tutt’altra pasta: eccelso nella scrittura, nell’invenzione della trama e nel tratteggio dei personaggi, ma pervaso di un malessere che rischia di essere contagioso per il lettore non avvertito, specialmente quello più giovane. I Maigret vanno letti in quest’ottica, perché Simenon vi racconta l’uomo che avrebbe voluto essere e non mai riuscito a diventare. Affrontati così, questi gialli diventano il diario straziante di un uomo che sente nell’anima e sulla carne il morso del peccato originale e rimane in attesa, chissà se con la forza del passo definitivo, che Qualcuno venga a riparare anche il suo destino.

Thriller dell’anima

Se vi piacciono i thriller e non lo avete già fatto, leggete Il Nemico (San Paolo) di Michael D. O’Brien. Per descrivere in poche righe questo libro di buona trama e di buon ritmo, si può definirlo una riscrittura del Padrone del mondo (Fede&Cultura) di Robert Hugh Benson. Non per diminuirne la portata, ma per inscriverlo in un filone glorioso che trae linfa dall’Apocalisse e narra la comparsa dell’anticristo nel mondo. Da leggere assolutamente l’uno e l’altro.
Qui bisogna segnalare Dodici (Marietti), di Giovanni Donna d’Oldenico. Innanzi tutto perché è un bel romanzo e poi perché devo la sua scoperta a un libraio, evento sempre più raro al giorno d’oggi. Ben pensato, ben scritto, Dodici sottende all’azione del Nemico, una lettura tremendamente attuale della follia scientifica. Ai cultori del genere, il romanzo di d’Oldenico ricorderà Quell’orribile forza (Adelphi) di C.S. Lewis, una delle prove narrative più ardentemente visionarie su questo tema. Vera e propria meditazione teologica che analizza e descrive nel dettaglio il declino della ragione là dove gli uomini intendono sostituirsi al creatore della vita.
Stesso filone, ma declinato in chiave dottrinale, per Habemus Papam (Fede&Cultura) di Walter Martìn. Sotto questo pseudonimo, si cela don Giuseppe Pace, salesiano che dalla sua fedeltà alla Tradizione ha tratto la fonte della propria fede e l’ispirazione per una multiforme attività letteraria da cui è uscito questo romanzo ambientato nella Roma degli Anni Settanta con un Papa che somiglia tanto a Benedetto XVI. Una miscela di suspense, buona dottrina e intuizioni visionarie funestata, bisogna dirlo per onestà, da una prefazione scritta da Mario Palmaro e dal sottoscritto. Ma, si sa, nulla è perfetto.
Chi si avventurasse lungo questa strada per la prima volta lo faccia tenendo presente che i bei romanzi di spionaggio possono essere considerati come l’epica moderna. Quando sono di qualità, sanno descrivere con terribile efficacia il rapporto dell’individuo con il potere. Provare per credere con splendidi esemplari del genere come La spia che venne dal freddo (Mondadori) o La talpa (Mondadori) di John Le Carré, oppure con Fatherland (Mondadori) o Gosth Writer (Mondadori) di Robert Harris.

Dalla Romagna all’Inghilterra e non solo

Prima di chiudere la valigia, non posso fare a meno di raccomandarvi un mio amato italiano e i miei amati inglesi. Se vi piacciono i racconti, anche brevi, leggete quelli di don Francesco Fuschini, un amore di sacerdote che ha consumato la sua vita in Romagna, tra anarchici e comunisti. Don Fuschini racconta la sua storia, fatta di piccole storie proprie e altrui, in varie raccolte. Io ho una passionaccia per Mea culpa (Marsilio), Parole poverette (Marsilio) e L’ultimo anarchico (Il Girasole).
Tra gli inglesi, si è già detto di Tolkien: poco, ma parlare di Tolkien vuol dire scoperchiare Il Signore degli Anelli e quindi scrivere un libro. Poi di Chesterton, di Lewis e di Benson. Passatemi la bizzarria di mescolare al gruppo l’irlanedese trapiantato in Canada e poi negli Stati Uniti Brian Moore. È suo il breve ma intenso Cattolici (Lindau): un romanzo ambientato su un’isola al largo dell’Irlanda, dove una comunità di monaci ha conservato la fede dei padri e la Messa di sempre. Niente è più realistico della fantaliturgia.
Rimane il tempo per raccomandare Bruce Marshall con almeno due romanzi, Il Miracolo di padre Malachia (Jaca Book) e Tutta la gloria nel profondo. Il mondo, la carne e padre Smith (Jaca Book). Tra i romanzi di Marshall, quest’ultimo è il mio preferito per quanto è cattolico quel prete cattolico di padre Smith e per la splendida descrizione della Messa gregoriana, la più commovente che io abbia trovato in un’opera di narrativa. Ecco, un bel ripasso di una Messa come si deve potrebbe essere l’idea per cominciare bene le vacanze.

 

IL TIMONE  N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 64 – 66

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