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Varsavia 1920. Il ‘miracolo della Vistola’
31 Gennaio 2014

Varsavia 1920. Il ‘miracolo della Vistola’

 

 

Nell’agosto di 90 anni fa l’Europa rischiò di essere invasa dalle truppe del regime bolscevico russo. L’eroismo dei soldati polacchi permise quello che fin da subito venne chiamato un miracolo

 

Il pellegrino che si rechi alla Santa Casa di Loreto ignorerà, probabilmente, gli affreschi della cappella polacca, sita vicino all’abside, dopo la Santa Casa. Qui, con le offerte dei cattolici polacchi, il pittore Arturo Gatti, loretano, dipinse due affreschi che, oggi, appaiono politicamente scorretti. Si tratta della “Vittoria di Sobieski a Vienna contro i turchi” e, soprattutto, de “Il miracolo della Vistola” dove le milizie polacche travolgono i bolscevichi. Ciò che accadde in quei giorni, durante la festività dell’Assunzione del 1920, è ignorato proprio dai cattolici, anche da quelli più colti e più saldi nella propria Fede. Eppure quella della Vistola è una delle battaglie più importanti della Storia, al pari di Maratona, Waterloo o Stalingrado. Tale affermazione apparirà molto meno temeraria una volta che sia delineato il contesto politico in cui essa avvenne.

La distruzione degli Imperi
Alla fine della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) erano scomparsi ben quattro grandi imperi: germanico, austro-ungarico, ottomano e russo. Con la Rivoluzione d’Ottobre, nel 1917, i bolscevichi di Lenin avevano abbattuto l’unico governo democratico mai esistito in terra di Russia, instaurando una dittatura infinitamente più feroce e sanguinaria di qualsiasi regime zarista precedente. All’inizio del 1920 la guerra civile che aveva insanguinato e spopolato la Russia stava volgendo al termine con la vittoria dei comunisti, più efficienti e organizzati, ma non per questo Lenin era intenzionato a conseguire una pace. La situazione, infatti, si presentava estremamente favorevole per un trionfo della Rivoluzione in tutta Europa. Gli Stati nati dopo la disintegrazione degli Imperi (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria) non avrebbero potuto resistere a un’offensiva dell’Armata Rossa, combinata con la consueta opera di sovversione interna ai singoli Stati.
La Polonia era sicuramente il principale ostacolo da abbattere: il suo popolo, per quanto vessato dai grandi proprietari terrieri, era particolarmente refrattario alla propaganda comunista, di modo che l’opzione militare era la sola praticabile. Era chiaro che, una volta occupata la Polonia, la Germania, sconvolta dagli scioperi e dalle sommosse, sarebbe caduta come una pera matura e ben difficilmente una Francia dissanguata dalla guerra avrebbe potuto opporre resistenza. Così il Politburo approvò i piani di invasione della Polonia, redatti dal generale Boris Saposnikov (1882-1945) già il 27 gennaio 1920. Il 14 febbraio Lenin prese la decisione definitiva di attaccare e cinque giorni dopo fu creato il comando del fronte occidentale. 65.000 bolscevichi vennero ammassati ai confini e il loro obbiettivo fu reso ben chiaro da una frase del loro comandante, l’esperto e determinato generale Michail Tuchačevskij (1893-1937): «Il sentiero della conflagrazione mondiale passa sul cadavere della Polonia».
Il servizio segreto polacco, che dimostrò tutto il suo valore anche nel corso della Seconda Guerra Mondiale, intercettò diverse comunicazioni riguardanti l’imminente offensiva e il generale Józef Piłsudski (1867-1935), capo dello Stato polacco e comandante supremo delle forze armate, decise di sferrare un attacco preventivo contro il fronte ucraino il 25 aprile 1920. Ogni resistenza fu superata e, il 6 maggio, i polacchi entravano in Kiev, preparandosi ad armare ed equipaggiare un esercito ucraino. La controffensiva sovietica non si fece attendere e venne condotta dalla sua unità più temibile, l’Armata a Cavallo di Semjon Michailovic Budjonny. Il 27 maggio, dopo aver effettuato una marcia di trasferimento di 1.400 chilometri in cinquanta giorni, la cavalleria sovietica si avventava sui reparti polacchi che, però, si dimostrarono molto più tenaci degli uomini di Pëtr Nikolaevič Wrangel (1878-1928) e di Anton Ivanovič Denikin (1872-1947), i generali “bianchi” sconfitti nella guerra civile. Il 5 giugno l’Armata a Cavallo sfondava le difese polacche a Zitomir, massacrando 600 feriti polacchi che non erano stati evacuati. L’esercito di Pilsudski venne obbligato a una precipitosa ritirata che, però, non divenne mai rotta disordinata.
L’Armata a Cavallo (Konarmija in russo) venne però bloccata a Brody alla fine di luglio e impegnata così duramente da doversi ritirare, logora e decimata.
Nel frattempo il gruppo di armate di Tuchacevskij, il cui fronte andava dal Baltico alle paludi del Pripjat, aveva sferrato un grande offensiva il 4 luglio e, nel giro di una settimana entrava in Minsk. L’ala sinistra dell’esercito polacco crollò di schianto e, il 24 luglio, i bolscevichi prendevano Grodno e puntavano su Varsavia. La situazione dei polacchi appariva disperata, ma anche Tuchacevkij aveva i suoi problemi, come la pratica impossibilità di richiamare verso nord le divisioni del gruppo d’armate ucraino, comandate da Aleksandr Egorov e aventi come commissario politico Josef Stalin. Si è molto discusso sulla responsabilità di Stalin nella disfatta della Vistola, in quanto non avrebbe obbedito all’ordine di concentrare le proprie truppe a nord.
La verità, come sostenuto dallo studioso di storia polacca e militare Adam Zamoyski, era che Tuchacevkij non diede ordini chiari in proposito.

«Gli uomini combatteranno e Dio darà la vittoria»
Quando si parla di “Miracolo della Vistola” ci si dimentica di un detto di Santa Giovanna d’Arco: «Gli uomini combatteranno e Dio darà la vittoria». Le gravissime carenze logistiche dei bolscevichi non sarebbero state così rilevanti se il popolo polacco non avesse resistito contro ogni speranza con l’eroismo che lo ha reso famoso nella storia. I polacchi si battevano disperatamente fino all’ultimo uomo, la resistenza si faceva sempre più tenace e le perdite bolsceviche sempre più alte: intere divisioni di volontari affluivano verso il fronte, composte da vecchi, giovani, artigiani, operai, professionisti, sacerdoti, tutti animati da uno spirito di resistenza indomabile, frutto della consapevolezza che, in quelle settimane, si sarebbe decisa la sorte dell’Europa e della cristianità intera. Così, a metà di agosto, l’esercito polacco disponeva di una forza numerica pari a quella delle unità dei fronti sovietici occidentale e sudoccidentale messi assieme.
Un secondo fattore decisivo fu la leadership di Pilsudski che spostò diversi reparti scelti dal fronte sud occidentale, ignorando deliberatamente la minaccia delle armate di Egorov che puntava su Leopoli. Pilsudski si era accorto che Tuchacevskij tendeva ad allargarsi sulla propria destra per attaccare Varsavia da nord, come aveva fatto il generale Paskevic nel 1831, sguarnendo il settore che andava da Deblin a Kock, lungo il fiume Wieprz. Pilsudski, che aveva preso il comando diretto della IV armata proprio in quel settore, lasciò che la III armata di Sikorski assorbisse l’urto delle divisioni rosse, fin quasi a crollare.
In quei giorni a Varsavia si trovavano il nunzio apostolico Achille Ratti (1857-1963), poi divenuto papa Pio XI, e un giovane ufficiale francese, Charles De Gaulle (1890-1970), in veste di addetto militare. Come tutti, anche questi due personaggi erano perfettamente consci della posta in gioco. Tra il 12 e il 16 agosto le divisioni polacche che difendevano il settore nord si sacrificarono in una battaglia di contenimento, limitando al minimo l’avanzata rossa. Il 14 agosto era caduta Radzimin, a ventitré chilometri da Varsavia e il 15 il generale Władysław Sikorski (1881-1943) difendeva la linea che correva lungo il fiume Wkra con un tale affanno che Pilsudski fu costretto a sferrare la controffensiva con ventiquattr’ore di anticipo.
Le truppe della IV armata polacca travolsero il piccolo gruppo d’osservazione di Mozir, posto fra la sinistra di Tuchacevskij e la destra di Egorov, e aggirarono le retrovie di Tuchacevsky, catturando la sua artiglieria d’assedio e minacciando tre armate di annientamento. La cavalleria di Tuchacevsky e la IV armata rossa furono costrette a ritirarsi in Germania dove furono internate, le altre divisioni vennero annientate o messe in rotta. Fu una sconfitta irreparabile, ma non era ancora la fine perché, sia pure in ritardo, la Konarmjia di Budjonny accorreva da sud solo per trovarsi a propria volta accerchiata dai polacchi a Zamosc. Qui, il 31 agosto, fu combattuta l’ultima grande battaglia di cavalleria della storia: a Komarow, sulla collina 255, i cosacchi di Budjonny impattarono frontalmente con l’8° e il 9° reggimento della brigata Brezowski dei lancieri polacchi. Fu una mischia paurosa, combattuta a colpi di lancia, sciabola e pistola, mentre la fanteria polacca stringeva il cerchio attorno a quella che era stata la migliore armata comunista. Alla fine Budjonny riuscì a rompere l’accerchiamento, ma solo a prezzo di gravi perdite e, comunque, la famosa Armata a Cavallo non si riprese più da quella battaglia. Polacchi, lituani e russi firmarono la pace con il trattato di Riga del 25 ottobre 1920, pur sapendo che si trattava di una tregua all’interno di un conflitto inconciliabile tra comunismo e Occidente. Chi non dimenticò la sconfitta subita dall’Armata Rossa fu Stalin che, nel 1940, ordinò la soppressione di 20.000 ufficiali polacchi nei boschi di Katyn.
Fra essi vi erano moltissimi veterani della battaglia di Varsavia e l’intenzione era appunto quella di sopprimere la Polonia per sempre: ma questa, come si dice, è un’altra storia.

BIBLIOGRAFIA

W. Bruce Lincoln, I bianchi e i rossi: storia della guerra civile russa, Mondadori, 1991.
Adam Zamoyski, 16 agosto 1920. La battaglia di Varsavia, Corbaccio, 2009.

 


 

 


IL TIMONE  N. 93 – ANNO XII – Maggio 2010 – pag. 26 – 27

 

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