A soli 31 anni, il 28 agosto 1915, cadde vittima del genocidio degli Armeni. Aveva compreso il dramma della dissoluzione della civiltà contadina. Le sue poesie più belle raccontano la vita degli uomini che coltivano la terra. Nella luce della fede cristiana
Cinquemila anni di civiltà contadina sono stati liquidati, nel Novecento, in tre generazioni: la saggezza popolare ereditata dai nonni, messa in dubbio dai figli, fu svenduta dai nipoti con la scusa che zappare è faticoso e “la terra è bassa”. Oggi le campagne in Occidente sono luoghi semideserti, nei quali si affida il lavoro agricolo a trattori, attrezzi, allevamenti su vasta scala: chi viaggia in autostrada o in treno, da Milano a Piacenza a Bologna e poi da Firenze all’agro laziale sino a Roma, non vede neanche un contadino… semmai qualche trebbiatrice in azione, o grossi getti d’acqua degli irrigatori.
La distruzione dei contadini
Cento anni fa, lo sradicamento della cultura contadina era impercettibile: nessuno avrebbe immaginato che nell’estate del Il poeta dei contadini Varujan 2008 più della metà degli abitanti della Terra sarebbe passata ad abitare nei “centri urbani”, e che l’agricoltura, per la prima volta dalle sue origini, non sarebbe più stata l’attività primaria degli uomini. I poeti ne percepirono qualche barlume, con le antenne sensibili della loro arte: prima Pascoli, Carducci, Verga, l’inglese Thomas Hardy, l’americano Walt Withman, il russo Turgenev, gli austriaci Stifter e Rosegger. Poi Tolkien, i Southern Agrarians della Vanderbilt University (Nashville, Tennessee) e Riccardo Bacchelli, P.P. Pasolini, Wendell Berry.
Veramente, la transizione storica delle società contadine verso l’inurbamento nelle periferie urbane fu un passaggio doloroso e devastante: per fiaccare le resistenze del “contadiname” (così lo chiamava Gramsci) erano avvenuti dei veri e propri genocidi. Violentissima fu la “De-kulakizzazione” in URSS, cioè il periodo della collettivizzazione forzata e della «liquidazione dei kulaki come classe» (1930-34): allora, la Russia sovietica pose le basi per la trasformazione forzata del paese da agricolo a industrializzato e moderno. Negli archivi della polizia politica (Ogpu) dell’epoca di Stalin troviamo le cifre: 6 milioni di morti per inedia fu il costo sociale pagato dal mondo contadino. A ciò si aggiungono milioni di vittime della rivoluzione culturale cinese al tempo di Mao Tze-Tung: nel bel romanzo di Acheng Il re degli alberi (stranamente da noi è fuori catalogo da anni), si descrive la stupida violenza dell’ideologia applicata dalla Repubblica Popolare Cinese alle questioni agrarie e culturali.
Verso l’Armenia, sui mari di grano
Tra le voci di chi, cento anni fa, ebbe il presentimento che la distruzione del mondo delle campagne avrebbe “denaturato” gli uomini ci fu Daniel Varujan: anch’egli fu attratto dalle seduzioni dell’estetismo decadente, dalle scaramanzie degli artisti di città. Ma era anche un contadino di desiderio, e si riscoprì uomo e armeno. Innanzitutto, la sua ispirazione fece ritorno alle fonti della tradizione della stirpe d’Armenia, esaltando le divinità pagane: poi, completò il pellegrinaggio alle sorgenti, riscoprendo la fede cristiana. Dai versi di Varujan provengono alcune parole/immagini che ritraggono per sempre la condizione dell’uomo che opera sulla terra: come ne “I contadini” (da D. Varujan, Il canto del pane, Guerini e Associati, 1992, a cura di Antonia Arslan)
«Gioia seminano nei solchi, e Dio
dal solco della loro fronte miete frutti.
Soli hanno sentito il fluido canto delle linfe.
Che importa se la saliva del bue unge
le loro mani,
e l’odore della stalla impregna il loro
mantello variopinto –
è nelle loro grandi palme che il seme
germina intero».
E si trova anche il sentiero invisibile che conduce alla fede, nella lirica “La preghiera di mia nonna” (da D. Varujan, Mari di grano, Paoline, 1995): «Seduta di fronte alla luna piena / la mia nonna bianca dice la preghiera della sera. / Neri pipistrelli girano intorno alla sua testa: / Dio vive nel suo cuore», per poi constatare che del Cielo «nelle tue vecchie pupille ancora immacolato è rimasto il suo azzurro» e che infine «muori diritta, vecchia e donna, / domani vergine rinascerai».
Allora, anche se ci vorranno secoli per ripercorrere la strada della gratitudine verso il Creatore, qui abbiamo un’ottima guida: (agri)coltura, cultura, culto. Ciò che greci e romani intuirono prima della Rivelazione, come spiega lo studioso Valerio Merlo nel suo Contadini perfetti e cittadini agricoltori nel pensiero antico (Jaca Book, 2003). Varujan da poeta era ritornato contadino? Antonia Arslan riferisce che le testimonianze sugli ultimi giorni del poeta, imprigionato, lasciavano stupiti i compagni: anche in carcere, riusciva a scrivere qualche verso. L’apparente idillio dei campi era già bagnato dal sangue dei papaveri, segnato dalle ferite inferte dalla falce… Così anche allora, nell’incertezza di ogni cosa, urgeva l’ispirazione, la mente e il cuore immersi in immagini- profezia per il popolo: tutto assumeva doppio significato. Infatti, l’ultima poesia Il mulino, incompiuta, negli ultimi versi recita:
«lascia che il grano diventi polvere
in mezzo alle pietre che si abbracciano;
in mezzo alle rocce che si mordono
lascia che il grano diventi il fiore.
Finché si riempiranno uno dopo l’altro
i sacchi, e poi si raddrizzeranno;
e i carri cantando, lasciato l’oro,
ritorneranno carichi di luce».
Il canto del pane
Queste furono le ultime parole scritte di Daniel Varujan, nato il 20 aprile 1884 a Perknik, piccolo villaggio nei pressi di Sebaste in Anatolia. Ebbe ben presto un’infanzia ferita: nel 1896 dovette recarsi con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, arruolato nell’esercito turco e imprigionato dal regime del sultano rosso Abdul Hamid.
Studiò presso il collegio mechitarista a Costantinopoli, poi nella scuola media di Kadikoy, da dove i padri lo inviarono a Venezia presso il collegio Mourad-Rafaelian: lì pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti. Tra il 1906 e il 1909 fu all’Università di Gand e vi attraversò una radicale crisi esistenziale. Ritornato in Turchia, si sposò, mentre la sua fama di poeta cresceva in seguito alla pubblicazione de Il cuore della stirpe (1909) e Canti Pagani (1913), due raccolte di liriche presto diffusissime. Divenne così il massimo rappresentante del breve Rinascimento Armeno, intorno alla rivista Navasart; trasferitosi a Costantinopoli, lavorò come direttore di una scuola. Nacquero in quel periodo due bambini; il terzo nascerà senza vedere il padre: in quell’epoca Varujan si riaccostò al cristianesimo e iniziò a scrivere Il canto del pane (rimasto incompiuto).
Nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1915, gli uomini dell’élite armena furono arrestati, prelevati dalle proprie case e deportati nel deserto.
Varujan verrà ucciso a colpi di pugnale il 28 agosto 1915, a trentun anni. Prima dell’arresto aveva detto di voler proseguire la composizione delle poesie e di scrivere il seguito de Il canto del vino. Al momento dell’uccisione, aveva in tasca il manoscritto de Il canto del pane e perciò il testo fu creduto perduto per molti anni; alcuni amici superstiti però, dopo la fine della Prima Guerra mondiale, ne affidarono la ricerca a un agente segreto, Arshavir Esayan, che lo ritrovò negli archivi turchi, fra i beni sequestrati agli armeni. Pubblicato postumo a Costantinopoli nel 1921, divenne il simbolo della vita della gente armena, quasi del tutto cancellata dalla faccia della terra.
Lì risuona la domanda: ma senza i contadini e la loro fertile sapienza, l’umanità resisterà al degrado? Senza i campagnoli, i rustici, gli zappatori, i cafoni e i villani? Come faremo senza tutti quei popoli che, nella brutalità dei genocidi, sono stati fatti sprofondare nell’humus, in odio a Dio e alla sua giustizia?
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 48 – 49
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