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Verità e ‘rettitudine’ della ragione
31 Gennaio 2014

Verità e ‘rettitudine’ della ragione

 

 

 

La ragione dell’uomo può cogliere la verità delle cose? Sì, stando alla Fides et ratio.
Ma a qualche condizione: amore della sapienza, stupore di fronte al reale, consapevolezza che la realtà ci è data e va accolta, desiderio di svelare l’essere, bisogno dell’uomo di conoscere il senso della storia per rispondere alle domande sul senso della vita.

 

In un recente scritto il cardinal Joseph Ratzinger, volendo descrivere l’atteggiamento di molti contemporanei di fronte al problema della verità, ha ricordato la celebre parabola buddista dei ciechi e dell’elefante. La parabola narra di un re che, dopo aver condotto un elefante al cospetto di alcuni ciechi, chiese loro di descriverlo; ogni cieco, toccata una parte dell’animale, giunse a una diversa definizione: chi aveva toccato la gamba disse che l’elefante era simile ad un tronco, chi aveva toccato la coda disse che era simile a una scopa e così via.
Oggi molti filosofi ritengono che nessuna affermazione possa essere considerata vera in senso forte, perché i limiti dell’esperienza e dell’orizzonte culturale all’interno dei quali opera la ragione sono invalicabili; per questo motivo la filosofia non deve più porsi il problema della verità: chi avesse la pretesa di cercare risposte “vere” sarebbe simile a un fomentatore di dispute, come i ciechi che si ostinavano cocciutamente a scambiare la parte con il tutto. Contro l’opinione comune dominante, l’enciclica Fides et ratio afferma con vigore la capacità metafisica della ragione, cioè la capacità di passare dal dato sensibile al significato metasensibile, alla “verità” della cosa.
Certo, l’essere non si concede in modo immediato alla presa della ragione perché il fondamento del pensiero non è concettuale, ma è nella realtà che si mostra donandosi.
Perciò nella ricerca della verità è fondamentale l’atteggiamento assunto dalla ragione di fronte alla realtà. La prima questione da porre è: qual è il “modo” giusto di filosofare, quando la ratio è recta ratio?
Filosofia vuoi dire “amore per la sapienza” e già il significato del termine introduce nella riflessione; infatti, l’amore implica un atteggiamento di tutto l’uomo: non si “ama” la sapienza solo con l’intelletto, ma con una disposizione che ricade necessariamente sulla volontà, l’affettività e la corporeità, perciò nel processo conoscitivo sono coinvolte tutte le facoltà della persona, ciascuna secondo la propria natura. Quella particolare relazione tra uomo e mondo che si realizza nella conoscenza è sempre accompagnata da una disposizione della volontà e dell’emotività che nel suo manifestarsi appare come “stupore” oppure come “sospetto”.
La realtà del mondo desta nella coscienza stupore quando l’esperienza umana riconosce che la realtà viene trovata come “già posta”, come evento gratuito non generato da sapere e volere umani. Dallo stupore sorge come conseguenza il desiderio di svelare il senso dell’essere che ci circonda e ci costituisce.
Il desiderio della conoscenza nato dallo stupore di fronte all’esistenza del mondo è espressione di un bisogno che nasce dallo spirito dell’uomo; non si tratta di un bisogno di tipo materiale, non si tratta neppure del desiderio astratto di conoscenza, ma del bisogno di conoscere il senso del mondo per rispondere alle domande serie da cui dipende il significato della vita.
Per formulare tali domande è necessario non solo guardare, ma anche vedere, attuando ciò che è implicito nello sguardo: l’accoglienza nei confronti della realtà. E il primo dato che emerge da tale “accoglienza” è proprio che il significato del mondo non è posto, ma trovato e accolto dalla coscienza. Lo stupore generato dall’unione nella coscienza tra la soggettività e la visione della realtà è condizione essenziale e irrinunciabile della riflessione filosofica. Riflettere significa “far rispecchiare”: ciò che viene rispecchiato nella coscienza è il reale, lo specchio è l’intelletto e l’immagine che si forma è il pensiero.
Riflettere è fare in modo che la realtà esterna si rispecchi nella soggettività, perché il senso del reale possa essere visto e compreso. Come nel mondo materiale per vedere bene un’immagine è necessario che lo specchio sia nitido, senza difetti, pulito, così anche nella conoscenza è necessario che la soggettività in cui si rispecchia l’oggetto conosciuto sia nitida per non deformarne il senso.
La coscienza di chi conosce può non essere in grado di rispecchiare fedelmente il reale perché la soggettività che opera la riflessione non è costituita solo dall’intelletto.
Nella conoscenza è la persona ad accostarsi a una situazione relazionandosi a essa con tutte le sue facoltà. Per questo è possibile che la comprensione del reale sia falsificata all’origine da un movimento impercettibile della volontà che, attraverso il “si” e il “no” del volere, orienta la formulazione del giudizio. Se questo è vero non si tratta solo di conoscere, si tratta di conoscere “bene”, cioè conoscere con la massima rettitudine possibile, facendo in modo che la nostra soggettività rifletta la verità della realtà in modo fedele, senza falsificazioni. Se all’origine della conoscenza “retta” c’è lo stupore che nasce da una disposizione di benevolenza e accoglienza verso la realtà, all’origine della falsificazione del reale c’è l’atteggiamento di “sospetto” e di chiusura verso l’essere. Alla radice del sospetto c’è il rifiuto dell’uomo di trovarsi come “già costituito” secondo una struttura ontologica che non è stata posta da lui, il rifiuto della creaturalità. Da questo rifiuto nasce l’utopia del cominciamento “assoluto”, cioè la pretesa di porre le condizioni della verità delle cose, oppure, di fronte all’impossibilità di stabilire un cominciamento della conoscenza che sia contemporaneamente soggettivo e valido per tutti, la dissoluzione nichilista del pensiero.
L’oblio dell’essere e della verità non è l’unico esito possibile della filosofia; occorre ripartire dalla realtà come fondamento della verità e dalla fiducia che essa è accessibile all’uomo; la fiducia nella conoscibilità del reale non è un fondamento ingenuo e acritico, anzi essa è in qualche modo dovuta, perché è solo all’interno di questo rapporto originario che è possibile ogni esperienza e riflessione. Al contrario, è proprio l’idea che non sia possibile conoscere la verità delle cose, e che quindi l’unica posizione onesta sia il relativismo, a poggiare su un fondamento acritico e illegittimo, poiché ci si serve della capacità di conoscere per gettare il sospetto su di essa. Il rapporto di tutte le facoltà dell’uomo (e quindi anche dell’intelletto) con il mondo è un fatto e in quanto tale non deve essere dimostrato; è chi mette in dubbio questo fatto che deve dimostrare la legittimità teorica del proprio dubbio. La conoscenza della verità oggettiva è possibile come conoscenza dell’oggetto presente intenzionalmente alla coscienza.
Dalla parabola dell’elefante e dei ciechi si può trarre una morale diversa dal relativismo scettico: se è vero che l’uomo non può pervenire al un sapere assoluto perché il suo intelletto è limitato, è anche vero che la conoscenza oggettiva è possibile come risultato della capacità di accogliere lo splendore dell’essere che si manifesta.

 

RICORDA

“Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Cn 1,26): la verità illumina l’intelligenza e informa la libertà dell’uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore”.
(Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, Città del Vaticano 1993).
“Ogni uomo è in possesso delle verità naturali che sono il necessario presupposto delle verità soprannaturali (preambula fidei)”.
(Antonio Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede, Ares, Milano 1990, p. 39).

BIBLIOGRAFIA

 

Giovanni Paolo II, Fides et ratio, Città del Vaticano 1998.
Antonio Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede, Ares, Milano 1990.
Francesca Rivetti Barbò, Dio Amore Vivente. Lineamenti di teologia filosofica, Jaca Book, Milano 1997.

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 10 – ANNO II – Novembre/Dicembre 2000 – pag. 26-27

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