Il significato profondo e decisivo di una tra le più note devozioni popolari. Dalla strettoia del Calvario passa la strada di ogni uomo che anela alla resurrezione per l avita eterna. La Via Crucis ci aiuta a percorrerla.
“Tra i pii esercizi con cui i fedeli venerano la Passione del Signore pochi sono tanto amati quanto la Via Crucis”: così precisa, e giustamente crediamo, quel Direttorio su pietà popolare e liturgia di cui abbiamo già parlato in queste pagine. Essa ha alle spalle una lunga storia, che prende le mosse dai primi pellegrinaggi in Terra Santa fin dall’Alto Medioevo. È naturale che, recandosi là, i cristiani visitassero, tra gli altri, anche i luoghi che erano stati testimoni degli ultimi giorni di vita di Gesù. Anzi, delle sue ultime ore. Dal podere chiamato Getzemani sul Monte degli Ulivi, fino all’altro monte, quel Calvario dove fu crocifisso, al giardino dove fu deposto, cadavere, nel sepolcro prestato da Giuseppe d’Arimatea.
È anche naturale che, per coloro che non potevano recarsi in Palestina in tempi in cui i viaggi non erano certo facili, sia nato il desiderio di ricostruire in Occidente, là dove cristiani vivevano ed operavano, dei “cammini” che qualche modo ricordassero quel primo, doloroso percorso.
All’origine non erano proprio come quelli attuali. Ci furono nel tempo versioni diverse tra loro. Sta di fatto però che, poco a poco, molti pendii delle terre cristiane si coronarono con le steli o le cappelle che ricordavano la Passione e Morte del Signore, mentre già a partire dalla prima metà del 1600 la Via Crucis, diffusa soprattutto da S. Leonardo da Porto Maurizio, trovò la struttura che conosciamo, in quattordici stazioni. Essa è troppo nota perché ci soffermiamo sugli specifici contenuti. D’altra parte, sappiamo anche, come ci dimostra da parecchi anni la Via Crucis che si svolge, per iniziativa del Papa, il venerdì santo al Col osseo, e che viene trasmessa in tutto il mondo, che essa può organizzarsi con testi di commento diversi. In essi, trovano di volta in volta risonanza le varie accentuazioni con cui possono essere letti e rivissuti quegli eventi fondamentali della fede. Qui, dunque, ci sembra opportuno cercare di capire il significato fondamentale di questa devozione: cioè che cosa essa deve tendere ad operare in noi. Non vi è dubbio che, anzitutto, essa deve muoverci a compassione per quelle sofferenze patite volontariamente dall’innocente Gesù e commuoverci per il grande amore che questi eventi dimostrano. Ma non ci sembra sufficiente, anche per non rischiare di cadere nel sentimentalismo puro e semplice. Per questo occorre una riflessione più approfondita, che giunga fino a comprendere davvero il perché di quei gesti e di quegli accadimenti.
L’uomo non può salvarsi da solo: ha bisogno di un redentore. Per questo Gesù si è incarnato, è morto e poi è risorto. Oggi tendiamo a dimenticarlo, anche noi cristiani. La soglia in cui scatta il “bisogno di Dio”, in cui si avverte il proprio limite e la necessità di un aiuto e di un significato per la propria vita, si è molto elevata. In effetti, quest’uomo moderno, che molto ha conquistato con la scienza e con la tecnica, che confida nella medicina per diventare immortale e nella psicologia per guarire i propri guasti interiori crede sempre più spesso di essere autosufficiente.
Per questo ha smarrito il senso del peccato. Non riconoscendo, se non a fatica, la propria dimensione di creatura ordinata ad un fine, ad un progetto divino, non capisce il male che procura a se stesso e al mondo quando esce da questo progetto e va per una strada diversa. Gli sfugge che la distanza con Dio è incolmabile se non coglie la mano che questo stesso Dio tende nella persona del Figlio.
Non capisce che è destinato a molto di più di quel poco che la sua intelligenza sa costruire. È chiamato a superare il limite imposto dal peccato e dalla morte, a vincere la tendenza al male, realizzando così quella immagine divina che porta impressa nella sua natura.
Ecco, tutto questo può e deve ricordarci la Via Crucis.
Quelli compiuti da Cristo non sono solo gesti d’amore, sono gesti che, nell’amore, portano la nostra salvezza, necessari per vincere il peccato e la morte. Gesù doveva salire su quella croce per aprirci la Via che egli è: questa è la Verità ed è al contempo la Vita.
Così, in ogni Via Crucis noi contempliamo, attraverso le quattordici stazioni, quella salvezza che va prendendo forma, le catene del peccato che si allentano fino a spezzarsi. Così, seguendo quegli straordinari eventi, vediamo come la sofferenza umana da tragedia inspiegabile, da scandalo intollerabile, diventi un mistero, un prezioso mistero di salvezza. E capiamo perché anche noi, al seguito di Gesù, possiamo e dobbiamo accettare di percorrere la medesima via: la croce, la purificazione attraverso la morte progressiva del nostro io cieco ed egoista sono passaggio necessario ed inevitabile. È la vita stessa con le sue esigenze a farcelo capire. Ma noi spesso resistiamo, difendiamo con tutte le nostre forze noi stessi e quella felicità che ci sembra di meritare. Fatichiamo ad entrare nel paradosso evangelico, che sconvolge ogni logica umana: “Beati coloro che piangono perché saranno consolati” Fino a quando, proprio attraverso la sofferenza, non ci viene concesso il dono della sapienza che ci fa capire come la gioia promessa dal Vangelo non sia una favola ma una realtà. Una certezza che fin da ora colma il nostro cuore, solo però quando ci arrendiamo alla verità che la Risurrezione, cui giustamente aneliamo, ha un passaggio obbligato, una strettoia che si chiama Calvario. La Via Lucis di cui parleremo la prossima volta passa dalla Via Crucis.
RICORDA
“La via crucis ha sempre qualcosa da dire. Ora è una stazione che parla con più insistenza, ora è un’altra. Qualche immagine resta a lungo muta. Poi, risvegliata da qualche esperienza interiore incomincia improvvisamente a parlare all’anima. Altre l’accompagnano invariate, col loro splendido segreto, per molti anni. E se poi qualcuno si abitua a portare nella via crucis esperienze personali, problemi che tormentano e perplessità, riceve spesso luce insospettata e insuperata consolazione”.
(Romano Guardini, Via Crucis, Queriniana, Brescia 1976, p. 8).
IL TIMONE N. 21 – ANNO IV – Settembre/Ottobre 2002 – pag. 50 – 51