«Se qualcuno non ama il Signore, sia anàtema! Maràna tha! La grazia del Signore Gesù sia con voi. Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!» (1Cor 16,22-24).
«Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26; cfr. Mt 10,37).
A volte capita che rileggendo le Sacre Scritture ci si renda improvvisamente conto dell’importanza di un versetto che prima era sfuggito, per così dire “scappato” via in fretta, senza aver attirato la nostra attenzione. Quando poi il versetto ha un’apparenza dimessa – oppure ovvia, scontata – questo è ancora più facile. Per carità, tutto è parola di Dio, tutto è importante. Ma a volte sfugge, scappa via, non riusciamo a “custodirlo”. Non riesce a diventare importante per noi.
Mi è capitato proprio questo, leggendo la prima lettera di san Paolo ai Corinzi, in fondo. Di norma quando si arriva in fondo a qualcosa – ad una lettera, per esempio – l’attenzione dovrebbe acuirsi nell’attesa di una qualche conclusione o comunque di qualcosa di importante, ma quando in fondo in fondo ci sono le solite formule di commiato, “formule di circostanza”, è facile essere tentati di sorvolare. Così mi succedeva regolarmente quando arrivavo al termine di questa meravigliosa lettera di san Paolo. Certo, avevo già notato quel troppo famoso Maranatha, una formula aramaica che vuol dire “Signore vieni!”, ma la mia considerazione non era andata oltre. Finché l’occhio è caduto su quanto viene immediatamente prima: «Se qualcuno non ama il Signore sia anatema». L’occhio vi era caduto chissà quante altre volte, ma non si era arrestato, non aveva indugiato. Caspita, mi sono detto, allora amare il Signore (cioè Gesù) è veramente fondamentale E mentre lo dicevo mi vergognavo, perché era come scoprire una terribile ovvietà.
Mi sono allora ricordato che il Signore pone nell’amore alla sua persona il principio fondamentale del suo discepolato. Il nocciolo non è la sua dottrina, ma la sua persona: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Mi sono ricordato che nell’amore a Lui pone la condizione essenziale per essere suo pastore: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21,15).
Mi sono allora ricordato che il Signore pone nell’amore alla sua persona il principio fondamentale del suo discepolato. Il nocciolo non è la sua dottrina, ma la sua persona: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Mi sono ricordato che nell’amore a Lui pone la condizione essenziale per essere suo pastore: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21,15).
Ho riflettuto più attentamente sulla misteriosa parola “Maranatha”. È – assieme ad Abba e poche altre – una delle parole conservate nel Nuovo Testamento nella lingua abitualmente parlata allora dal popolo della Palestina e dunque anche da Gesù e da Maria e mi sono ricordato che è una espressione “ambigua”. Dipende da come la si legge. Se si legge Marana tha vuol dire “Signore nostro vieni!”, se invece si legge Maran atha vuol, dire “Il Signore nostro è venuto, è qui”. Per capire come ciò sia possibile, bisogna considerare il fatto che i manoscritti dell’epoca non riportano gli spazi tra le parole. L’ambiguità non è stata voluta da chi ha scritto il testo, ma chi mi dice che non sia stata permessa e cercata da Chi lo ha ispirato? Essa mi aiuta a capire che Gesù deve venire alla fine dei tempi, ma – in certo qual modo, assolutamente reale – è già qui in mezzo a noi. Se lo amiamo lo portiamo nel cuore. Maranatha è infatti presente in un antichissimo testo cristiano, la Didachè, contemporaneo al vangelo di san Giovanni, nel contesto di una descrizione della celebrazione dell’Eucaristia «Chi è santo si avanzi, chi non lo è si penta. Maranatha»: chi ha esaminato la sua coscienza e non ha trovato peccati gravi venga a ricevere il Signore, altrimenti si astenga, perché il Signore è qui! «Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11,28-29). Come si può poi amare veramente il Signore Gesù senza amare tutti quelli che lui ama? Quelli per cui ha dato la vita? Quelli che hanno in lui la loro vera e divina Immagine? Nell’amore di Gesù c’è dunque tutto quel “comandamento nuovo” che lui ci ha lasciato come il più importante: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Amare Lui è dunque tutto, è l’essenziale, è il fondamento, è il principio. Semplice, tanto semplice, e insieme terribile. «Mi privi pure di tutto Gesù, ma non mi privi del suo amore», diceva santa Gemma Galgani. Sant’Ignazio di Loyola pregava insistentemente la Vergine Maria che lo ponesse “vicino al Figlio suo”. Aveva come l’ossessione di star vicino a Gesù. Come le sanno vedere i santi queste cose semplici! Semplici e terribili, semplici e meravigliose.
Mi è allora venuto in mente un proverbio latino, qualche volta citato da san Tommaso d’Aquino: ubi amor, ibi oculus. Potremmo tradurlo così: là dove si ama, là corre l’occhio. L’occhio poi non è solo quello del corpo. Quando una cosa Ti interessa, la mente corre sempre lì. O a lei o a quello che la riguarda. È come una calamita. La vita spesso Ti costringe a pensare ad altro con tale attenzione che Ti devi distrarre, ma non appena la pressione si allenta, subito l’“occhio” scappa lì, dove c’è l’“amore”. E di lì non vorrebbe mai muoversi. Anzi, quando l’amore è veramente molto forte, l’attenzione sembra resistere anche alle occupazioni più invadenti, si ritira nel caldo cantuccio del cuore e – di lì – continua a guardare, con uno sguardo di cui Tu stesso finisci per non accorgerti più, tanto ti è diventato familiare: «[…] dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
Allora ho ripensato al Rosario, a questo pensare cullato dalla “cantilena” di un pregare Gesù con Maria. Un pensare che tende appunto a farsi sempre più amore di Lui, del Signore Gesù.
IL TIMONE N. 98 – ANNO XII – Dicembre 2010 – pag. 60