Ho sempre avuto il sospetto che i cattolici avrebbero qualcosa da imparare da Pannella Giacinto detto Marco e dai suoi radicali.
Aspettate, per favore, prima di scandalizzarvi. In effetti, sono del tutto consapevole che quell’abruzzese ormai più vicino agli ottanta che ai settanta (i digiuni, anche se simulati, fanno bene alla salute) risponde a molte delle caratteristiche di un “anticristo” così come è delineato da scrittori credenti alla Benson. L’anticristo, cioè, in doppio petto, dal volto umano, dalle apparenze evangeliche, astuto nel nascondere gli artigli sotto un guanto di pacifismo, di buonismo, di non violenza. Un “diavolo” che predica l’amore, che si dice accanto ad ogni sofferente, che si batte per la libertà e per i diritti di tutti. Talvolta ha tentato di coinvolgere anche me, strumentalizzando il “cattolico” che sono col coinvolgermi nelle sue infinite iniziative. Naturalmente è stato mandato a quel paese, ma devo avvertire che il torrente di parole delle sue telefonate era talmente suadente, i suoi argomenti tanto apparentemente evangelici che altri, meno scafati, ci sarebbero cascati.
A differenza di quanto credono quelli che vedono il rosso dappertutto, i radicali non hanno nulla a che fare con i comunisti: questi ultimi, spesso, vengono strumentalizzati anch’essi ma il radicalismo è liberalismo, seppur di sinistra, è individualismo, rappresenta cioè il contrario dell’utopia comunitaria comunista. In questa prospettiva, ogni desiderio deve diventare un diritto, ogni capriccio ha diritto di cittadinanza, ogni legge morale va scardinata perchè oppressiva, ogni verità deve far posto alla infinità delle opinioni, tutte egualmente rispettabili anche se aberranti e asociali.
Storicamente, il radicalismo è stato espressione della piccola, talvolta grande, borghesia, quella che assai spesso si riuniva nelle logge massoniche. Ma, nell’accezione pannelliana, non ha neppure più lo schema etico – di derivazione cristiana – che sorreggeva, malgrado tutto, la prospettiva dei “liberi muratori” all’antica. Il libertarismo radicale, l’individualismo ossessivo portano, lo si voglia o no, al nichilismo.
Sta di fatto che, scrivendo nel 1982 Scommessa sulla morte, prevedevo (e non perché fossi profeta ma perchè c’è, nelle cose, una logica ineluttabile) che dopo divorzio e aborto sarebbe seguita l’eutanasia. E che, ancora una volta, le cose – pur inserite in un trend che coinvolge tutto l’Occidente postcristiano – sarebbero state accelerate dall’attivismo radicale. Ci sono voluti 25 anni ma ecco che ci siamo, ecco che Pannella strumentalizza il caso di un povero invalido, come già aveva strumentalizzato le vittime dell’incidente chimico di Seveso per la legalizzazione dell’aborto o aveva taroccato, per il divorzio, le statistiche dei reati commessi in famiglia. Ma questa “collana gloriosa con tre gemme”, come la chiamano loro, non è che la più appariscente, visto che ci sono i radicali dietro a tutte le campagne libertarie di questi decenni: alcune, va riconosciuto, anche comprensibili e magari – in qualche caso – addirittura meritorie. È avvenuto, ad esempio, per certe vittime del giustizialismo giacobino di una certa magistratura. Ma, in maggioranza, sono state, e sono, campagne permeate da una visione dell’uomo, della società, della storia che poco o nulla hanno a che fare – magari malgrado le apparenze – con la prospettiva cristiana. E cattolica in particolare. Non entro in altri particolari. Qui, ciò che mi importa è solo giustificare una convinzione: ci sarebbe, cioè, da imparare dalla forsennata, instancabile, totalitaria dedizione del Giacinto-Marco alla sua Weltanschauung.
Come credenti, in questa fine di cristianità di massa e di dissoluzione della religiosità sociologica, dobbiamo riprendere sul serio il ruolo assegnatoci dal Vangelo e di cui ci siamo spesso dimenticati: il granello di senape, il piccolo gregge, il pizzico di sale, il misurino di lievito. Dobbiamo essere consapevoli che, per vocazione siamo minoritari. Ma dobbiamo anche renderci conto che si può essere minoritari senza essere marginali.
Questa è, occorre riconoscerlo, la lezione impartitaci da un Pannella che – sorretto soltanto da un piccolo gruppetto, con pochi mezzi, un’organizzazione risibile rispetto a quella dei grandi partiti, senza media propri ma riuscendo ad attrarre quelli degli altri – ce l’ha fatta più e più volte a imporre all’intero Paese l’agenda a lui gradita. Quel teramano ci ha dato conferma di una realtà che ben conoscono gli storici: nel bene e nel male, le cose sono decise e imposte da minoranze attive, decise, spregiudicate che finiscono col trascinare dietro di loro le masse, spesso amorfe e conformiste. Non fecero così anche quei quattro gatti, ma fanaticamente motivati, dei giacobini, che inocularono nella storia dei virus che ancora agiscono e sono anzi divenuti patrimonio comune di tutto l’Occidente? Sicuramente altrettanto minoritari anche i radicali italiani, ma di certo non marginali. Come confermano in questi mesi, per l’ennesima volta, con la campagna – tanto cinica quanto instancabile – per la cosiddetta “buona morte”.
È un esempio sul quale noi credenti dovremmo riflettere, magari per impararne le tattiche e le strategie, naturalmente in quanto hanno di lecito in una dimensione di fede. Uso, comunque il condizionale. La nostra riflessione, infatti, dovrebbe centrarsi innanzitutto sulla difficoltà maggiore: i pochi possono trascinare i molti, certo; ma solo se quei pochi hanno un pensiero, una prospettiva, una visione del mondo, una passione di convincere. Proprio ciò che manca, or-mai da decenni, a troppo cattolicesimo, ridottosi a una melassa che ricicla, per giunta in ritardo e con un surplus di moralismo e di sentimentalismo, il pensiero egemone politicamente corretto. Bien penser pour bien agir, diceva Pascal: è il pensiero che guida l’azione. Solo l’ortodossia può sorreggere l’ortoprassi. Ma qual è il pensiero di troppi di noi, che dovremmo riscoprire e realizzare la nostra vocazione di sale, di lievito? Diciamocelo chiaro: non è marginale, oltre che ormai minoritaria, buona parte della stampa che ancora viene detta e si dice “cattolica” e che non sa far altro che ripetere la vulgata del conformista “corretto”, un brodino tiepido e insipido che non può di certo suscitare energie ma indurre alla sonnolenza? Come e quanto incidono sul vissuto le 25.000 omelie pronunciate in Italia ogni domenica? Come riscoprire quel che un tempo si chiamava, e deve ritornare a chiamarsi apostolato, se il kérygma non c’è più, se nulla di appassionante, di chiaro, di preciso sappiamo annunciare? Come passare dalla difesa, spesso lagnosa e vittimista, all’azione che fermenti la società, se non riusciamo a proferire altro che moralismi ed auspici edificanti quanto impotenti, roba da messaggio di fine anno di Presidente della Repubblica?
Da questi “scristianizzatori” che sono stati, e tuttora sono, i radicali dovremmo imparare molto quanto alle tecniche; ma imparare prima di tutto che queste sono inutilizzabili se manca il messaggio chiaro e forte che queste tecniche devono sorreggere e diffondere.
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A proposito di quella mentalità “da piccolo gregge” che dobbiamo acquisire, volenti o nolenti. Vedo l’ultima edizione del Leading Catholic Indicators, una sorta di periodico manuale statistico della Chiesa americana. Le cifre sono implacabili. Per scegliere qualche esempio tra i moltissimi e per limitarsi all’educazione, si scopre che i seminaristi dei Fratelli delle Scuole Cristiane erano 912 nel 1965 e l’anno scorso erano ridotti a 6, dicesi sei; che i Gesuiti sono scesi nello stesso periodo da 3.559 a 389; che in vent’anni è stata chiusa negli Usa la metà delle scuole cattoliche, con una discesa degli studenti da oltre 700.000 a 300.000.
Ma, forse, è meglio così: non dimentichiamo mai che è molto meglio non sapere che sapere in modo sbagliato. In effetti, si riportano i risultati dei sondaggi quanto ai contenuti. Si scopre così che solo il 10 per cento degli insegnanti di religione (anche se frati e suore) segue l’insegnamento della Chiesa, che la grande maggioranza ammette la liceità di divorzio, di aborto, di omosessualità. Non sorprende, dunque che – stando questa volta a un’inchiesta del New York Times – il 70 per cento di coloro che in America si dicono Roman Catholics consideri l’Eucaristia solo a Jesus simbolic reminder, un ricordo simbolico di Gesù. Ancor meno, cioè, della prospettiva del protestantesimo classico.
La crisi della Chiesa, non ci stancheremo di ripeterlo, non è una crisi di strutture; e una crisi di fede.
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Per cambiare del tutto argomento. Se ne parlava da tempo ma ora se ne hanno sia la conferma che i particolari, grazie alle memorie postume e ai documenti dell’archivio del marchese Alfredo Solaro del Borgo che fu amministratore di Umberto II, il “re di maggio”, avendo regnato soltanto un mese, nel 1946. Dovendo partire per l’esilio in Portogallo e non avendo mezzi, visto il sequestro cui erano sottoposti i suoi beni, l’ultimo dei Savoia mandò quel suo fido marchese in Vaticano, dove fu ricevuto dal sostituto della Segreteria di Stato, il futuro Paolo VI, Montini. Questi informò il papa, Pio XII, che – stando al colloquio con l’aristocratico – risultavano privi di denaro non solo il giovane ex-sovrano, ma anche gli anziani genitori, Vittorio Emanuele III ed Elena di Montenegro, già in esilio in Egitto. Pacelli, allora, autorizzò Montini a concedere, discretamente e sulla parola, un prestito in contanti di 10 milioni (50 secondo la testimonianza di Andreotti), una somma comunque assai rilevante. Prestito che fu restituito cinque anni dopo dai Savoia: Pio XII rifiutò che venisse versato anche un interesse.
Sin troppo facile trarne motivo di meditazione: 76 anni prima, il bisnonno di Umberto II era entrato a cannonate nella Roma del Papa, si era installato da padrone nel suo palazzo, aveva cacciato i religiosi dai conventi, ne aveva confiscato senza alcun indennizzo i beni, aveva demolito decine di chiese per erigere ministeri e tracciare nuove strade. Ed ora, eccoli qua: il padre scappato dal Quirinale di notte, in modo infamante, tremando per paura di cascare in mano ai tedeschi e abbandonando al suo destino le forze armate cui aveva imposto di morire gridando «Savoia!»; il figlio, cacciato dal Quirinale dalla volontà popolare espressa in un libero referendum. Eccoli, dunque, a chiedere l’elemosina del successore di Pio IX, trovando – invece che una meschina rivalsa – le porte e la borsa della Chiesa aperte e la magnanimità non solo del rifiuto di ogni interesse ma anche del rifiuto di rendere nota la vicenda. Una discrezione signorile che, sessant’anni dopo, è stata rotta non dal Vaticano ma dall’ammi-nistratore stesso dell’ultimo re.
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Messa vespertina della vigilia di Natale. Ho in mano il foglietto, mi preparo – rassegnato – a risentire quella lunga sequenza della genealogia di Gesù («Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…») che apre il vangelo di Matteo e che, lo confesso, mi era sempre sembrata noiosa. Era, dico. Perché, finalmente, di colpo mi rendo conto di ciò che sempre mi era sfuggito: c’è una grande ricchezza e anche, a ben guardare, una grande bellezza in questo elenco di nomi. Perchè è proprio questa successione che fonda la verità dell’Incarnazione. Gesù non è solo il Messia, è addirittura Figlio di Dio, eppure viene a noi attraverso una catena di rapporti carnali («…generò… generò…») che nella carne lo radicano. Vero uomo non per finta ma legato, come ogni uomo, a una serie ininterrotta di antenati. Non a caso, il giorno successivo – il Natale, appunto – mi sono ritagliato il tempo per esaminare, uno ad uno, questi nomi ebraici che sinora avevo scorso distrattamente. Ma sì, dovremmo pur saperlo che non c’è nulla di superfluo o di gratuito nella Scrittura. E che il suo mistero sta proprio nel fatto che la riflessione su di essa è inesauribile.
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Impiccagione di Saddam Hussein. La goffaggine dei registi dell’operazione – gli americani – riesce addirittura a farci sentire compassione per quel tiranno brutale e sanguinario, abbandonato impotente a carnefici incappucciati e manifestamente lieti di mettergli al collo un capestro di dimensioni impressionanti. Sono volontari, hanno insistito per fare i boia. C’è sempre qualcosa di sconcio negli eroi di ogni piazzale Loreto, in coloro che scalciano contro chi è cascato per terra. «Giustizia è fatta», dice il presidente Bush in abiti sportivi, lasciando per un attimo la partita di golf cui è intento nella tenuta di campagna.
Oddìo, una strana giustizia: l’impiccato era considerato responsabile di 300.000 morti, ma quanti sono, sinora, i morti provocati dagli invasori yankees, legittimati da “armi di distruzione di massa” che in realtà non c’erano? Poiché, nel sotterraneo di Baghdad dove è stato appeso Saddam le forche erano due, è forte la tentazione di pensare che all’altra poteva esserci una corda per chi di morti ne aveva provocato, in nome di una menzogna, 35mila solo nell’anno passato; e nei tre anni precedenti di guerra, con bombardamenti durati mesi, una catasta ancora maggiore. Per non contare i decessi dovuti a un lunghissimo embargo, esteso anche alle medicine.
Ma strana giustizia anche per quanto osservato da un liberale equilibrato e non fazioso come Sergio Romano, già ambasciatore a Washington, oltre che a Mosca. Negli anni Novanta del secolo scorso, un gran numero di nazioni ha creato il Tribuna-le penale internazionale, istituito per giudicare i politici caduti in disgrazia e considerati rei di “delitti contro l’umanità”. Lasciamo pur stare le perplessità e i sospetti che suscitano queste iniziative: per fare un solo esempio, si processa un serbo che non conta nulla, ma chi si sogna di portare in giudizio la Nomenklatura cinese, pur composta ancora da molti complici degli orrori di Mao? Chi ha chiesto la consegna di altri complici, quelli di Stalin ma anche di Kruscev e di Breznev, dopo la caduta dell’Urss?
Lasciamo stare, dicevo. Dobbiamo pur saperlo che solo gli stracci vanno per aria. Torniamo, piuttosto a Sergio Romano, che ricorda come proprio gli americani abbiano rifiutato di ratificare quel Tribunale internazionale non per il cattivo odore di ipocrisia che emana, ma perché non vogliono che un giorno un qualche loro militare possa sedere sul banco degli accusati. Tutti sono giudicabili e condannabili. Tutti, ma non gli yankees: la Old Glory, la bandiera a stelle e strisce, è immacolata. E che nessuno si permetta di processare chi sta sotto a quello stendardo: sinonimo, lo si sa, di cristallina democrazia e di generosa umanità. Come si vide, del resto, anche a Norimberga, dove (lo ricorda lo stesso Romano) americani e russi si accordarono previamente, stabilendo che gli imputati tedeschi non avrebbero avuto il diritto di accusare le potenze vincitrici di avere commesso gli stessi crimini. Condanna inesorabile, dunque, per il bombardamento germanico di Coventry, ma divieto di ricordare gli orrori di Dresda, Amburgo, Hiroshima, Nagasaki. Orrore per i lager nazisti, ma vietato parlare di quelli sovietici o anche di quelli americani dove, dopo la resa della Germania, si lasciarono morire di fame e di stenti decine di migliaia di prigionieri tedeschi, chiusi dietro a reticolati su campi aperti, senza alcun riparo né servizio. Lo stesso Joseph Ratzinger ha raccontato, nelle sue memorie, che cosa fossero questi campi americani in cui – seppure per poco tempo, per fortuna sua e nostra – fu rinchiuso giovanissimo con la sua divisa raffazzonata (mancava ormai la stoffa) della Flak, la contraerea tedesca.
Insomma, come dice Bush, con l’impiccagione dell’odiato Saddam, davvero «giustizia è fatta».
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I pastori luterani, in Danimarca, sono funzionari pubblici, secondo il concetto protestante di Chiesa di Stato. Alcuni di quei pastori sono gay, o lesbiche, e convivono nelle case canoniche con i loro compagni e compagne. Molti sono i divorziati risposati. Gli altri hanno “regolare” moglie e, naturalmente, figli.
Proprio questo è il problema. Il sindacato dei pastori (hanno anche questo) da tempo è in trattative serrate col ministro del culto, che è il loro datore di lavoro, per avere libero il week-end. O, almeno, la domenica. Ma non è proprio quello il “giorno del Signore”, quello in cui maggiore deve essere l’impegno dell’uomo di Chiesa? D’accordo, concedono i rappresentanti di quei funzionari clericali, ma anche noi teniamo famiglia, moglie e figli si arrabbiano se non siamo liberi, nel fine settimana, di fare come ogni altra famiglia. Tutt’al più, i sindacalisti sono disposti a un compromesso, simile a quello dei farmacisti, dei tabaccai, degli edicolanti: qualche tempio aperto “per turno” alla domenica. Comunque, niente di drammatico: è da molto che, in quei templi luterani, di danesi non se ne vede praticamente nessuno. Del resto, che ci andrebbero a fare? Il culto protestante, lo si sa, consiste in un sermone: ma quale predica può venire da simili pulpiti?
IL TIMONE – N.60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 64-66