Capita spesso di incontrare (e non solo tra gli increduli ma anche tra persone che vogliono continuare a dirsi cristiane) chi ti parla di “fallimento del Vangelo”. Dicono: il Figlio stesso di Dio s’incarna, si fa vero uomo, muore addirittura sulla croce, alla fine risorge e risale al Cielo. Eppure, quelli che credono in Lui, dopo venti secoli, sono meno della metà della popolazione mondiale, esistono addirittura vaste regioni del globo dove si conosce solo, e a mala pena, il nome di Gesù, il Cristo, il Messia annunciato dai profeti. Come la mettiamo con la fede in un Dio che la fede dichiara onnipotente, ma che non sembra essere riuscito nemmeno a farsi conoscere da quelle che dovrebbero essere tutte Sue creature?
Per trovare risposta a questa domanda, da tempo rifletto sul pensiero di Maurice Blondel, ripreso da Henri De Lubac, il teologo gesuita che fu emarginato ma che fu poi tra gli ispiratori del Concilio e alla fine fu fatto cardinale da Giovanni Paolo II. I due studiosi francesi affermano che bisogna distinguere tra Redenzione e Rivelazione. Con la sua incarnazione, passione, resurrezione, il Cristo ha redento ogni uomo, sul piano misterico ma al contempo oggettivo, anche per chi lo ignora. Quanto alla Rivelazione, cioè all’insegnamento evangelico, alla pienezza della fede, all’appartenenza alla Chiesa: Dio stesso ha voluto che ciò avvenisse progressivamente, partendo da un piccolo nucleo destinato ad allargarsi nei secoli. Dunque, sin dal Mistero Pasquale di passione, morte, risurrezione l’umanità è già tutta “cristiana”, nel senso che già è stata salvata, anche se a molti manca ancora la consapevolezza della salvezza e la conoscenza della Rivelazione.
Questa prospettiva, di cui Blondel e De Lubac furono i corifei più noti, sembra presente in alcuni documenti del Vaticano II e sembra al contempo andare al di là delle dottrina classica, sempre affermata dalla Chiesa, del “battesimo di desiderio”, per il quale la salvezza è aperta agli uomini di buona volontà, anche se non cristiani. È una prospettiva che un altro gesuita Teilhard de Chardin ha portato alle estreme conseguenze, che furono condannate dal Magistero e ancora adesso sono discusse e considerate da molti non ortodosse. C’è, qui, da riflettere, da approfondire, da indagare ancora a lungo, al di fuori delle polemiche fra “tradizionalisti” e “progressisti”. Ne vale certamente la pena perché, se questa distinzione tra Redenzione e Rivelazione è accettabile, c’è qui una risposta a quell’accusa di “fallimento cristiano” di cui dicevamo all’inizio.
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Umberto Eco mi rattrista. Mi amareggia proprio perché ne stimo la cultura poliedrica e onnivora, lo stile scintillante, il savoir faire, la bravura in ogni genere letterario. Dal saggio accademico al romanzo di successo mondiale. Non abbiamo avuto, tra noi, molti incontri ma quei pochi sono stati lunghi e nelle interviste che ne ho tratto traspariva la mia ammirazione mista al rammarico.
Era una delle promesse più brillanti per il mondo ecclesiale, era tra i dirigenti dell’Azione Cattolica, i vecchi francescani di Alessandria (dove è nato e cresciuto) me ne hanno parlato come di un giovane militante fervoroso, teso all’apostolato. Ha poi preso una strada che l’ha condotto a quella che egli stesso, in un colloquio per Famiglia cristiana, volle definire una “apostasia dalla fede”. È divenuto una star della cultura, come le sue doti facevano prevedere, però di quella laicista. Ma sì, c’è da amareggiarsi, pensando a quanto avrebbe potuto dare alla causa cristiana, cattolica, se fosse restato alla fede della prima giovinezza. In ogni caso, come sempre la Provvidenza sa quel che fa e le sue vie sono per noi incomprensibili ma, in ogni caso, giuste.
Se parlo ora di Eco è perché, girovagando su Internet, sono capitato sull’intervista che diede a Repubblica, il quotidiano cui collabora, l’anno scorso, in occasione dei suoi ottant’anni. Arrivati a quell’età è inevitabile un accenno alla morte, anche se il nome stesso, come si sa, è rimosso a ogni costo dalla prospettiva che il professor Umberto condivide e di cui è un riconosciuto maestro. Alla cauta domanda dell’intervistatore ha replicato che, certo, quella di morire è un’usanza spiacevole cui tutti prima o poi sono chiamati, ma l’importante è affrontarla con leggerezza. Dunque, ha detto che gli piacerebbe finire con ironia, come non so quale letterato americano le cui ultime parole, sul letto di morte, furono la richiesta che gli portassero uno stuzzicadenti. «Stupendo!», ha commentato Eco, augurandosi di essere abbastanza “elegante” da fare altrettanto. E volete che non mi rattristi davanti a un uomo di tale intelligenza, costretto dalla rimozione di una cultura, che non ha risposte al dramma umano, a simili giochetti per esorcizzare il momento più decisivo, solenne cui una creatura è chiamata? Affrontare il Mistero dell’eternità con uno stuzzicadenti tra le labbra ironiche?
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Leggo Lo scaffale infinito, di Andreas Kerbaker, una storia delle biblioteche, appena tradotto in italiano e in cui abbondano gli aneddoti storici curiosi che molto mi piacciono e che trovo spesso istruttivi. Nel libro si ricorda anche quanto avvenne, con l’avvento dell’anglicanesimo, all’università di Oxford, in particolare alla biblioteca della Divinity School dove si coltivava soprattutto la teologia. Nella seconda metà del Cinquecento fu nominato rettore Richard Cox, un rigoroso seguace della Chiesa di Stato voluta da Enrico VIII. Così, fu dato l’ordine di togliere dalla biblioteca tutti i volumi “cattolici”, o per autore o per argomento. Questo significava svuotare gli scaffali, visto che, nell’antica università, tutti i collegi e le facoltà erano stati fondati e gestiti per secoli da religiosi come i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani. Quando fu eseguito l’ordine del rettore Cox, questi ordinò che i libri dei “papisti” non fossero svenduti ma bruciati, perché non inquinassero le menti di qualcuno cui fossero venuti in mano. Stabilì pero di non dare alle fiamme quelli con le migliori rilegature in pelle: questi furono venduti ad artigiani perché confezionassero guanti. Furono offerti in vendita anche quasi tutti gli artistici scaffali, visto che la biblioteca non aveva praticamente più nulla.
Non si pensi a un atto di fanatismo di un singolo: Oxford ebbe ben 63 docenti (primo tra essi Thomas More) martirizzati perché non vollero accettare il distacco da Roma imposto dal capriccio erotico di un re. E fino al 1870 fu impedito l’ingresso in università ai giovani cattolici: ogni domanda di iscrizione era vagliata e l’aspirante studente era sottoposto a un rigoroso esame da parte di una commissione di pastori. Anche solo un sospetto di simpatia per il cattolicesimo bastava perché l’accesso fosse proibito.
Storie così sono innumerevoli, ma è inutile riesumarle perché, l’esperienza secolare lo dimostra, non intaccano la “leggenda nera” che vuole che solo la Chiesa di Roma sia intollerante e violenta. Mentre gli altri…
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Tra le cause che portarono i rivoluzionari francesi a detronizzare (e poi a ghigliottinare) Luigi XVI e a proclamare la repubblica, ci fu anche il motivo, così si diceva, che la repubblica costava ai cittadini assai meno della monarchia. Basta affamare la povera gente, schiacciandola di tasse che servivano anche a mantenere un sovrano, le sue regge, la sua corte! Quel che ci voleva era l’austerità e la sobrietà repubblicana!
Trovo curiosa, dunque, l’inchiesta fatta dal Dipartimento di sociologia dell’università di Gand in Belgio sul costo delle istituzioni politiche in Europa. Si scopre così che il Presidente della Repubblica francese costa ai contribuenti 110 milioni di euro all’anno. Il Presidente italiano ancor di più: qualcosa come 153 milioni. Ebbene, il bilancio della regina di Inghilterra (la monarchia più illustre rimasta) è di 38 milioni, quello del re del Belgio di 14, Juan Carlos di Spagna si accontenta addirittura di soli 8 milioni. La monarchia più costosa – non è spiegato perché – è quella di Norvegia: 42 milioni. Il che significa solo un terzo della Francia e addirittura poco più di un quarto della spesa italiana per preservare “l’austerità repubblicana”.
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Molto bello l’aneddoto che trovo in una biografia di Leone XII, papa dal 1823 al 1829. Bello soprattutto per chi, come me, ama i gatti e li considera un dono speciale – assieme ai cani – riservatoci dal Creatore. Sorvolo, perché fin troppo ovvio, sull’aiuto datoci nei secoli dai cani nei nostri bisogni più vari, compreso quello di avere un amico di straordinaria devozione e fedeltà. Quanto ai gatti – questi incompresi, ma solo per chi non li conosce davvero, convivendo con loro – vorrei ricordare soltanto ciò che molti ignorano. Successe, cioè, che periodicamente la superstizione già pagana (invano combattuta dalla Chiesa) portasse anche in epoca cristiana a periodici “genocidi” di quei felini, sospettati di essere creature diaboliche. Un accesso di quella furia crudele e assurda si ebbe attorno alla metà del Trecento, quando la paura dei malefici di Satana portò in quasi tutta Europa a uno sterminio delle povere bestiole. E non soltanto di quelle nere, ma di tutte quante. Ma la punizione era in agguato: la sparizione quasi totale dei gatti portò alla moltiplicazione massiccia e indisturbata dei topi e dei ratti, le cui pulci (lo si scoperse solo secoli dopo) se pungono l’uomo portano la peste. E venne, puntualmente, la peste forse più terribile della storia, quella detta “nera” che provocò la morte di quasi la metà della popolazione del Continente.
Ma torniamo a Leone XII che, ormai anziano, negli ultimi tempi amava riposare la sera, prima di ritirarsi per la notte, su una poltrona, avendo sulle ginocchia e accarezzandolo il suo bel gattone affettuoso. L’affetto era ricambiato dal papa che aveva però un cruccio: che sarebbe avvenuto di quella creatura quando egli fosse morto? Si sa che, ancora allora, al decesso del pontefice seguiva un periodo di disordine. Ma ecco un’idea: ambasciatore di Francia presso la Santa Sede era allora François René de Chateaubriand, il celebre autore dei cinque volumi del Genio del cristianesimo. Il papa, che gli era amico, lo mandò a chiamare per una visita privata e, con stupore dello scrittore diplomatico, gli chiese subito, senza preamboli, se amasse i gatti. Alla risposta affermativa, Leone XII fece seguire la sua richiesta: adottare il suo, di gatto, per assicurargli un avvenire, visto che il pontefice prevedeva che la morte non fosse lontana. In effetti, così avvenne e la bestiola (di cui, purtroppo, gli storici non ci hanno conservato il nome) ebbe un avvenire assicurato. Un piccolo episodio, certo, ma che riscatta l’indifferenza se non, talvolta, la crudeltà di certi ambienti religiosi nei riguardi degli animali, anche di quelli domestici.
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La nostalgia del paganesimo che attraversa sotterranea i secoli cristiani, e si manifesta oggi in modo aggressivo ed esplicito, nasce certamente anche dalla idealizzazione di un tempo che non aveva remore morali, soprattutto in campo sessuale. L’etica cristiana è stata ed è sentita (oggi, in particolare) come una cappa di cui liberarsi per dare libero sfogo ai piaceri erotici, quali che siano. Per fare un solo esempio, particolarmente rilevante: il movimento omosessuale – divenuto una lobby potente e spesso minacciosa verso chi lo ostacoli – esalta come l’età dell’oro quella greca e romana, quando l’inversione sessuale sarebbe stata socialmente accettata se non addirittura ammirata. In realtà non fu così: tollerata fu la pederastia “attiva”, soprattutto il padrone che usava sessualmente degli schiavi adolescenti; ma non fu accettata, anzi fu motivo di disprezzo, spesso di persecuzione, l’omosessualità “passiva”.
In ogni caso, al contrario di quanto dicono certi ideologi, il mondo classico vedeva nel possesso pederastico (non era accettata la sodomia tra uomini adulti) una esaltazione della maschilità, di un machismo tanto dominante da sottomettere entrambi i sessi al suo desiderio sessuale. Le legioni di Cesare cantavano un inno di scherno verso di lui perché, recatosi assai giovane in Asia per una missione politica, avrebbe soggiaciuto alle brame di un potente locale. Disprezzo universale anche per Nerone che giunse sino a recitare la parte della moglie in un grottesco matrimonio. Nessun scherno, invece, anzi l’ammirazione di molti, per l’amore smodato dell’imperatore Adriano nei confronti del bellissimo Antinoo che, nel rapporto, aveva la parte femminile. Insomma, ad onta di quanto vogliono farci credere, l’omosessualità nel mondo classico non significava l’indeterminatezza e la scambiabilità dei ruoli sessuali, del tipo della attuale “ideologia di genere”, ma era un modo per esaltare la maschilità di alcuni e per disprezzare altri, bollati come effeminati.
Resta comunque il fatto che il paganesimo, in questioni di sesso ma non solo, lasciava una totale libertà perché non poteva fare altrimenti: gli dèi stessi erano licenziosi, non potevano certo impartire lezioni a nessun umano. Per stare alla pederastia: lo Zeus greco, il Giove romano, non era certo un omosessuale, anzi era famoso per gli innumerevoli tradimenti femminili alla moglie Era-Giunone. Però, per completare i piaceri, si era scelto sulla terra e si era portato sull’Olimpo, come coppiere, il più bello fra i giovani, Ganimede. E, per non essere costretto ad abbandonarlo al primo spuntare della peluria sul viso, gli aveva concesso il dono della eterna adolescenza. C’è forse confronto tra questi comportamenti e quelli pretesi dall’etica prima giudaica e poi cristiana? La risposta è ovvia, ed è dunque ovvia la nostalgia di tanti, nei secoli, per quelle divinità che invece di ordinare la continenza davano per prime l’esempio della lussuria. Sorprende che questo aspetto sia poco considerato nelle polemiche di certi credenti contro il ritorno attuale, nell’Occidente, di una mentalità pagana. Invece di accumulare ragioni sociologiche e magari teologiche, converrebbe pensare a uno dei costanti desideri umani: lasciarsi andare ai sensi, soprattutto a quello che presiede alla libido, liberandosi al contempo da ogni senso di colpa, da ogni timore di infrangere una legge sovrumana. Se gli abitanti del Cielo fanno così, perché non potrebbero quelli della Terra?
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Tra le encicliche più citate da oltre un secolo c’è quella di Leone XIII sui problemi sociali e che viene sempre e solo indicata con le due parole latine con le quali inizia: Rerum novarum. Le “cose nuove”, un titolo che sembra uno squillo trionfale, che fa subito pensare all’apertura, finalmente, anche della Chiesa ai miti di progresso inarrestabile, di scienza redentrice, magari di pace universale. Il fatto è che il titolo completo dell’enciclica è censurato, visto che la terza parola dell’inizio raffredda subito tanto tripudio: Rerum novarunm cupiditas, così comincia l’enciclica, dove cupiditas può tradursi come “smania”, “desiderio smodato” e non è, in ogni caso, un aggettivo elogiativo.
Ancor più singolare il caso dell’ultimo documento del Vaticano II, il testo chiamato ufficialmente “Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo” e che è indicato sempre come Gaudium et Spes. Ci si rifà a queste due parole, per mostrare anche qui la fiducia e l’ottimismo sull’uomo e sulla società moderna portati dal Concilio. Ma, ancora una volta, si ignorano le parole che seguono: subito dopo “la gioia e la speranza”, il testo aggiunge «luctus et angor», dunque «Le tristezze e le angosce». Insomma, non ingenuo, ma il realismo cattolico di sempre, il suo costante et-et, riguardo alla condizione umana.
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Si spara davanti a Montecitorio, vengono in mente altri spari in quel luogo, quelli di un tal Pallante contro Palmiro Togliatti, Segretario Generale del PCI, nel luglio del 1948. Per una serie di casi, mi viene sott’occhio l’editoriale scritto in quella occasione da don Giuseppe Brusadelli, il prete che fondò e diresse con capacità e successo il quotidiano cattolico di Como, L’Ordine. Leggo e mi rendo conto che da quella pagina ingiallita vengono parole che vale la pena di rileggere, che possono avere malgrado tutto una loro attualità. In ogni caso, sono la testimonianza di un tempo in cui il mondo ecclesiale non tollerava l’ipocrisia, la rimozione della verità in nome del “politicamente corretto”. Scriveva, dunque, il coraggioso don Brusadelli, in tempi in cui ancora si rischiava a parlare chiaro: «Per l’attentato a Togliatti, noi cattolici siamo gli unici ad avere diritto di essere veramente dolenti. Diciamo diritto, perché si tratta di un attentato politico. Ebbene, la dottrina della Chiesa è l’unica che ha sempre e comunque condannato come delitto intollerabile la soppressione fisica dell’avversario politico. I comunisti, invece, non hanno proprio nulla da dire. Hanno sempre approvato e frequentemente praticato il delitto politico, glorificandolo come atto di eroismo, hanno elevato a principio il sistema di una lotta spietata, omicidio compreso, purché giovi alla “causa”, hanno fomentato rivolte e ribellioni sanguinose, hanno nutrito la figura del sicario».
Continuava il prete giornalista: «Di che cosa si lamentano ora? Che altri li trattino come essi trattano e hanno sempre trattato i loro avversari? Diciamo chiaro e tondo che la lezione comunista è stata imparata anche da altri, come al tempo delle squadre fasciste ». Concludeva don Brusadelli: «Quanto a Togliatti, gli auguriamo che guarisca e per questo preghiamo. Ma il nostro parere sulla sua attività non cambia».
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 64 – 66
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