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Vivaio. La conversione della «Pasionaria» e altre spagnolerie
28 Febbraio 2014

Vivaio. La conversione della «Pasionaria» e altre spagnolerie

Una nuova guerra di Spagna?
Qualche giorno passato in Spagna per la presentazione del mio ultimo libro. Sono contento che le mie cose siano tradotte, diffuse, ristampate in quella lingua che è tuttora quella in cui parla e legge la maggioranza dei cattolici del mondo. Anche se non sappiamo, purtroppo, per quanto ancora, vista l’emorragia, il passaggio continuo dei sudamericani alle ricche, insidiose, intraprendenti sètte venute da quel Nord America che, da sempre, non sopporta che the hispanics seguano le superstizioni del papismo cattolico. Con i miei amici spagnoli c’è ormai abbastanza confidenza per poterci dire tutto a viso aperto, senza ipocrisie. Così, confido loro che ho un gran timore: e che, cioè, si sia alla vigilia di un nuovo round dello sport nazionale spagnolo. Che non sono los toros e neppure el futbol (come lo chiamano) bensì la guerra civile.
Fu guerra civile anche quella della Reconquista: si dimentica che gli invasori islamici furono sempre minoranza, la gran massa era composta da spagnoli che avevano rinnegato il Vangelo ed erano passati al Corano. Furono questi “indigeni” che prima combatterono per secoli contro i cristiani e poi rifiutarono con tenacia granitica di riconvertirsi al Dio Trinitario, dopo che i loro padri erano passati ad Allah. I moriscos preferirono la miseria, la morte, la tragedia dell’espulsione piuttosto che tornare a quell’inganno che era per loro la fede nella Croce. Guerra civile, insomma, come quella del 1640 quando catalani e portoghesi insorsero in armi contro gli altri ispanici, non volendo condividere il loro destino. Andò bene, dopo una dura guerra a quelli di Lisbona, ma non a quelli di Barcellona che dovettero tornare a mordere il freno, aspettando un’altra occasione. Pochi decenni dopo, all’estinzione della dinastia spagnola degli Asburgo e alla prospettiva di un Borbone di Francia sul trono di Madrid, ecco un’altra feroce guerra civile, stavolta non di secessione ma di successione. Un’altra occasione per la Catalogna sembrò venire con Napoleone, quando Barcellona non trovò l’indipendenza dalla Penisola che agognava ma, in mancanza di meglio, si accontentò di diventare un dipartimento francese. Lotta civile subito dopo, in Centro e Sudamerica dove i criollos, i discendenti dei coloni venuti dalla Penisola, lottarono per l’indipendenza ben consapevoli che si trattava di una guerra fratricida. Verso la metà dell’Ottocento, di nuovo, e per due volte, le guerre fratricide conosciute come “carliste”. E poi, naturalmente, la Guerra Civil per antonomasia, la più crudele e sanguinosa mai vista in Europa, i tre anni di massacri tra spagnoli divisi soltanto da una prospettiva religiosa e politica. Prospettive, spesso, piuttosto vaghe ma sufficienti a scannarsi con una furia selvaggia, sino alla fine.
E ora? Ora un nuovo scontro è già in atto ma il peggio deve ancora venire. Dalla fine del regime franchista ad oggi, i morti per attentati e scontri a fuoco nei Paesi Baschi sono stati oltre mille. Malgrado ogni concessione di Madrid, ad ogni elezione i partiti indipendentisti ottengono una maggioranza schiacciante e la folla non di rado applaude quelli che per il Governo centrale sono terroristi e per quella folla nient’altro che eroi della lotta di liberazione. Ma a Bilbao si è aggiunta, alla grande, Barcellona. Qui pure la maggioranza elettorale va regolarmente agli indipendentisti che – mai sazi essi pure di lontananza da Madrid – hanno adottato un nuovo Statuto che la Corte Costituzionale ha giudicato illegale nei modi di adozione e nei contenuti, senza che i catalani se ne preoccupassero. Adesso si è giunti all’ultimatum: la coalizione al potere ha fissato, di scelta propria, la data per un referendum popolare dove si chiede ai Catalani se vogliono restare legati al resto di Spagna, seppure con le larghe autonomie già ottenute; oppure, se vogliono andarsene, proclamando la secessione e divenendo una repubblica del tutto indipendente. Anche questo è in diretto contrasto con la Costituzione e il governo di Madrid non potrà di certo tollerarlo. Ma la Catalogna (che ha già una lingua propria imposta anche agli immigrati da altre zone di Spagna, ha un inno, una bandiera, una polizia che ha sostituito la detestata Guardia Civil, l’equivalente dei nostri carabinieri), la Catalogna non tornerà indietro. Ma allora, come tante altre volte, si muoverà l’esercito, quell’esercito così odiato che gli è persino vietato di sfilare nelle vie di Barcellona. E ricomincerà – ho ricordato agli amici, preoccupato per un Paese che amo – ricomincerà il match sanguinoso già troppe volte visto al di là dei Pirenei. Impossibile, nell’Europa d’oggi? Purtroppo no, come ha mostrato lo smembrarsi sanguinoso di quella Jugoslavia, che dopo decenni di regime centralista autoritario sembrava avere ormai un’unità salda.

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L’Opus Dei dove sembrava impossibile

Perché queste considerazioni, si chiederà qualcuno, con tante altre cose di cui occuparsi? Il fatto è che, come avviene sempre in Spagna, anche stavolta mi è capitato di ritrovare amici o di conoscere nuove persone sopranumerarie o numerarie dell’Opus Dei. Persone che mi hanno risvegliato, dentro, una domanda che mi ha accompagnato anche quando scrivevo su di essa un libro inchiesta: come può essere nata in Spagna, da un prete spagnolo, una simile Opera? Un’Opera in cui domina un senso di normalità, di tranquillità, di ricerca della perfezione cristiana ma senza alcuna eccitazione né tantomeno fanatismo, semplicemente cercando di fare al meglio possibile il proprio dovere professionale ed umano. Se la logica del temperamento e della storia iberica sembra essere un radicale aut-aut, un tendere agli estremi, un grido di combattimento, qui è il contrario: un equilibrio che esclude ogni esagerazione, una discrezione spinta al punto da essere scambiata per volontà di celarsi. Niente punti esclamativi, nell’insegnamento di san José Maria Escrivà de Balaguer, sempre e solo appelli alla pacatezza della ragione e non agli entusiasmi emotivi. In tutto è raccomandato il rifiuto della esagerazione. Serietà inappuntabile, certo, ma dove sembra di sentire la raccomandazione di Talleyrand: niente eccessi di zelo, niente esibizionismi ascetici, la santità la si può e la si deve raggiungere, ma nella tranquilla quotidianità. Nei tempi in cui san José Maria iniziava il suo insegnamento la Spagna era piena di gente che gridava «Viva la muerte», di gente pronta ad uccidere e ad essere uccisa per un ideale politico, rosso o nero che fosse. E in una società come questa, proprio uno spagnolo non per caso, anzi un figlio dell’Aragona, terra propizia agli eccessi iberici, insegnava un modo di vivere il Vangelo in un modo al contempo radicale e familiare, eroico e quotidiano.
Questa diversità tra una scuola di spiritualità e la società dalla quale viene sembra davvero una conferma di quanto il Santo di Barbastro ha sempre affermato: «Fundador, yo? Yo soy un fundador sin fundamento! Io non volevo fondare nulla, non è né mio merito né mia colpa se all’improvviso, senza che vi pensassi, nel giorno degli Angeli Custodi, a Madrid, mi è successo “qualcosa” di assolutamente imprevisto. Mi è successo, cioè, che ho visto, ma sì ho proprio visto, l’Opus Dei e, con mio grande spavento, mi è stato fatto capire che ero io il povero strumento che doveva realizzare quel progetto grandioso ». San José Maria, cioè, non come elaboratore e diffusore di una spiritualità ma come semplice strumento per rendere concreto un progetto che non era suo. Ma che non era neanche spagnolo; né, peraltro, di alcun altra cultura. Un progetto universale, come del resto proverà il suo attecchire, tanto silenzioso quanto continuo, in ogni Paese del mondo.

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La conversione della “Pasionaria”
A proposito delle “due Spagne” e del feroce, periodico confronto tra loro: tutti conoscono la donna che fu ed è tuttora l’icona stessa dei rojos, i “rossi” che combatterono e persero la guerra civile del secolo scorso. Dolores Ibàrruri, nome di battaglia La Pasionaria, era, ed è ancora per molti, il simbolo che ha emozionato per generazioni i rivoluzionari, non soltanto iberici. Comunista, atea, premio Stalin per la pace (!), divenuta cittadina dell’Urss, un figlio morto a Stalingrado combattendo contro i tedeschi, odiatrice delle virtù borghesi anche lasciando la famiglia per convivere con un compagno di lotta più giovane di lei di 18 anni, presidentessa del PCE, il partito comunista spagnolo, ai tempi duri dell’esilio, voce della resistenza di Madrid assediata dai franchisti gridando alla radio, notte e giorno, la frase divenuta leggendaria: «No pasaran! No pasaran! Madrid sera la tumba de el fascismo!». Il suo ateismo e il suo anticlericalismo erano ferocemente militanti: nulla ebbe da dire, se non parole di assenso, per la mattanza di vescovi, di preti e di cattolici in generale che fu superiore persino al bilancio tragico della Rivoluzione francese nel biennio della “de cristianizzazione”. Una strage che trova riscontro solo nelle persecuzioni antiche. Morì a 95 anni, a Madrid dove era potuta rientrare (con grandi onori) dopo la morte di Franco: ma la sua morte, nel 1989, coincise con il crollo del muro di Berlino e lo sgretolarsi di quel comunismo cui aveva consacrato la vita, non badando a sacrifici.
Ma ora c’è un’altra delusione per i vedovi e gli orfani – certo clero di patetico anacronismo non escluso – della Grande Illusione comunista. Ora abbiamo saputo da un libro – ed abbiamo avuto conferma da alcuni familiari, mentre altri si sono chiusi in un mutismo sconfortato significativo – che la Pasionaria, la sterminatrice di preti e di suore, l’atea granitica, la teorica della lotta a ogni Chiesa, in realtà è morta piamente, munita di tutti sacramenti, cantando persino dal suo letto di agonizzante canzoncine di devozione popolare. La rivelazione che ha portato l’ultimo colpo agli sventurati che ancora tenevano il suo ritratto appeso alle mura di casa ci è venuta in modo indiretto, attraverso una biografia, scritta da un gesuita, su un altro gesuita famoso in Spagna, il padre Llanos. Costui, dopo una giovinezza di estrema destra (fu cappellano de La Falange) passò all’estrema sinistra e divenne il prototipo e l’esempio del prete operaio, naturalmente fiancheggiatore e comunque amico dei comunisti. La Pasionaria lo conobbe per questo, ma – probabilmente con delusione del padre – non voleva da lui politica, bensì religione. E la voleva con tale fermezza che prese regolarmente a confessarsi e alla fine volle tutti i sacramenti del buon cattolico, a cominciare dalla Unzione degli infermi.
Se la cosa si è conosciuta solo nel 2013, cioè 24 anni dopo la morte di Dolores Ibàrruri e dopo la scomparsa anche del suo confessore non è – pare – perché la donna abbia chiesto il silenzio, ma perché così avrebbe deciso il padre Llanos. Un atteggiamento, insomma, che ricorda quello di Jean Paul Sartre quando andò nell’Urss e si rese conto del fallimento e dell’orrore del regime. Ma, tornato a Parigi, si rifiutò di parlare della sua delusione, dicendo in privato a coloro che lo rimproveravano: «Non dobbiamo demoralizzare gli operai di Billancourt», il sobborgo di Parigi dove sorgeva la più grande fabbrica di Francia, quella della Reanault. Probabilmente, anche il prete operaio spagnolo non voleva dare altre delusioni ai suoi superstiti comunisti, già disperati per il crollo del “Paese dei lavoratori”. Non voleva che fossero costretti a rinunciare anche ai loro “santi”, a cominciare dalla mitica Pasionaria.
Insomma, se queste sono state le motivazioni di quel gesuita “impegnato nel sociale”, come dicono, ci sarebbe da rattristarsi ma non da stupirsi: si sa come la “conversione”, quella religiosa, non sia vista di buon occhio in certi ambienti clericali, anzi sia apertamente scoraggiata. Ma, da quanto appare chiaro dai fatti, Dolores (appellativo mariano, in Spagna) ce l’ha fatta, è morta rinnegando l’ideologia che le sembrava così generosa ed era invece criminale è che aveva servito per tutta la vita. Ha varcato la porta munita dei sacramenti cattolici, liberamente e sinceramente richiesti: ed è questo ciò che solo conta.

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Il destino degli animali
È stata creata in Germania, presso l’università di Munster (l’ateneo che fu frequentato dal giovane Joseph Raztinger) la prima cattedra di “teologia degli animali”. La cosa non mi dispiace, purché non si cada della tentazione ideologica di un “animalismo” che passi dall’indifferenza a una esagerazione che non rispetti la gerarchia delle Creature, voluta (parola di Bibbia) da Dio stesso. Sono convinto che abbiamo un debito verso gli animali: siamo noi, infatti, con il nostro peccato, i responsabili del male e della sofferenza che hanno fatto irruzione nel mondo e che tutto e tutti hanno coinvolti. L’animale era, ed è restato, innocente e sconta le conseguenze della nostra colpa. Dicono (è da discutere) che non abbia diritti: ma noi, di certo, abbiamo doveri verso di lui.
Tra le prime cose su cui la nuova “teologia” dovrà indagare c’è il grande problema della sopravvivenza oltre la morte (e se sì, quale?) delle specie non umane, tenendo presente che per esse non si può parlare di peccato visto che questo suppone il libero arbitrio, mentre l’animale non sceglie ma segue un istinto che gli è stato infuso.
Certo una loro vita eterna, se esiste, non potrà essere come la nostra. Come ha detto un teologo, essi potrebbero sopravvivere, ma in modo misterioso, per noi quasi impensabile: “vivendo in eterno nella mente del Dio che li ha creati”. Paolo De Benedetti, un giudeo-cristiano, come si definisce, uno studioso acuto e un amico che stimo anche per l’amore consapevole e talvolta commovente che ha per ogni essere vivente, non ha dubbi: «Sono convinto che l’animale che ci ha accompagnati, amati, consolati sulla terra ci seguirà anche nell’altra vita. E, questo, anche per una ragione che mi sembra decisiva: se tutto ciò che ha avuto da Dio la vita non l’avesse di nuovo, la morte sarebbe più potente del Creatore stesso».
Chiunque abbia avuto in casa un cane o un gatto e abbia imparato ad amare queste creature di cui Dio ci ha fatto dono, convivendo ogni giorno con loro, spera davvero che sia così.

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Citazioni che fan pensare
Mi piace un gioco di parole che trovo in un libro di Fréderic Dard, un autore francese contemporaneo. Nella sua lingua, faite (fatta) e fête (festa) si pronunciano alla stesso modo. Ebbene, Dard propone ai credenti di affiancare alla classica invocazione «mon Dieu, que votre volonté soit faite! », mio Dio che la vostra volontà sia fatta, un «Mon Dieu, que votre volonté soit fête!», Mio Dio, che la vostra volontà sia una festa. Il suono della frase è lo stesso, ma la differenza è grande: dall’accettazione rassegnata di quanto ci càpita, alla gioia festosa, alla consapevolezza che la Provvidenza opera sempre per il nostro bene.
Già che ci siamo, non mi dispiace un’altra citazione di un altro francese, Albert Camus, di cui l’anno scorso si è celebrato il centenario della nascita: «L’inferno è un favore molto speciale che Dio riserva a coloro che lo hanno domandato ripetutamente». Ma c’è profondità anche nella invocazione di Teilhard de Chardin: «Mio Dio, ci avete detto di credere all’inferno. E noi, obbedienti alla vostra Parola, ci crediamo. Ma ci avete anche vietato di affermare che un solo uomo sia all’inferno, con assoluta certezza. La vostra Chiesa proclama i santi ma mai ha proclamato né mai proclamerà i dannati». Per finirla col tema, devo dire che trovo inquietante il paradosso di uno scrittore acuto e geniale come Aldous Huxley: «Siamo davvero sicuri che questa nostra Terra non sia l’inferno di un altro, lontanissimo, pianeta?». Non prendetemi per matto: è una ipotesi che mi è parsa degna di riflessione.

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La bella storia di Santa Marta

Quello che, con il nome antico, è ancora chiamato “Ospizio di Santa Marta” era ed è la foresteria della Città del Vaticano. Giovanni Paolo II la fece ricostruire, contando di adibirla anche all’alloggio dei cardinali in tempo di Conclave. Cosa che in effetti avvenne, prima per l’elezione di Benedetto XVI e poi per quella di Francesco. Il quale, come sappiamo, ha deciso di fermarsi lì, lasciando vuoto l’alloggio papale negli attigui palazzi. Ebbene, questo “Ospizio” ha una storia che fa onore alla Chiesa ma che è ormai ignorata. Vale la pena di ricordarla. All’inizio del 1915, il terremoto nella Marsica fece una strage spaventosa: oltre 30.000 morti, soprattutto ad Avezzano, che fu interamente distrutta. Lo Stato italiano, di nascosto, stava mercanteggiando la sua neutralità, chiedendo ai due fronti contrapposti chi offriva di più per un intervento nella guerra già in corso. Non c’era né tempo, né soldi, né soldati per occuparsi troppo di quelle decine di migliaia di abruzzesi morti e delle centinaia di migliaia rimasti senza nulla, a cominciare dalla casa. Il Papa viveva ancora rinchiuso in Vaticano e il governo italiano si preoccupava di precisare ai suoi interlocutori segreti che, con chiunque si fosse alleato, non avrebbe tollerato che la Chiesa partecipasse ad alcuna conferenza diplomatica internazionale. Ma proprio quel papato emarginato si mosse per fare tutto ciò che poteva: Santa Marta divenne un rifugio, un ospedale, una casa per un gran numero di poveri terremotati della Marsica. Nella “inutile strage” (come la chiamò Benedetto XV, allora Pontefice), purtroppo entrò alla fine anche l’Italia. Ed ecco di nuovo Santa Marta, trasformata stavolta nella sede di una gigantesca opera vaticana di assistenza concreta ai prigionieri, soprattutto malati, di ogni Paese. Alla fine del conflitto, il Segretario di Stato, cardinal Gasparri, comunicherà che quell’intervento era costato ben 85 milioni di lire oro: una somma enorme venuta solo dalla carità cattolica. Romain Rolland, il premio Nobel per la pace che molto si batté contro quella terribile guerra, disse che in essa «la Chiesa cattolica è stata la seconda Croce Rossa». Non fa male ricordare certe cose a chi ha in testa sempre e solo lo IOR.   

IL TIMONE – Marzo 2014 pag. (64-66)               

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