Può capitare che venga in mente il compagno Stalin partecipando a una messa? A me è capitato: in una chiesa di “architettura” (il nome di quest’arte illustre è qui eccessivo, le virgolette sono di rigore), di “architettura”, dunque, contemporanea, in un trionfo di cemento armato a vista, alluminio, vetro, luci al neon, arredi astratti e, sul tetto, una campana sorretta da un traliccio industriale in ferro. Il tutto all’insegna di un pauperismo demagogico, da “Chiesa dei poveri” di sessantottina memoria. Di questi orrori tutti ne conosciamo non pochi esemplari, quindi si sarà capito di che cosa parlo.
Ebbene, mentre la messa si celebrava, una maliziosa distrazione mi ha portato a pensare alla metropolitana di Mosca. Tra le tante ferrovie sotterranee del mondo, questa è un unicum stupefacente: mentre ovunque si bada alla funzionalità, con fermate di semplice servizio, così non è nella capitale russa. Qui, ogni stazione – l’una diversa dall’altra – è un trionfo di colonne, capitelli, mosaici, pitture murali, stucchi, statue in marmo e bronzo, enormi lampadari in metalli pregiati, soffitti affrescati, vetrate colorate.
Non a caso, questi luoghi sono protetti dalle autorità locali come opere d’arte. La sensazione, entrandovi, è di essere capitati non certo in una semplice stazione di trasporto di massa, bensì in una fastosa cattedrale sotterranea.
In effetti, è proprio questo che voleva ottenere Stalin quando, all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, convocò i migliori architetti del regime ai quali fece un discorsetto di cui conosciamo i contenuti dai documenti dell’epoca, un tempo sepolti in archivi inaccessibili e ora, dopo il crollo inglorioso dell’impero, consultabili dagli studiosi.
Disse, in sostanza, il despota a quei professionisti: «Le grandi città del capitalismo hanno tutte una rete metropolitana. È
ora che l’abbia anche la capitale dei Soviet. Io, però, ne voglio una del tutto speciale, dove ciascuna stazione sia, senza badare a spese, tale da stupire ed affascinare chi la frequenterà. Voglio che non si tratti solo di un capolavoro di ingegneria ma anche di un capolavoro d’arte, con un fasto da lasciare a bocca aperta». Come è ben noto, dargli ragione senza fiatare e obbedire con zelo servile era il solo modo di salvare la pelle quando si era in balia sua e delle sue feroci polizie segrete. Nessuno degli architetti convocati, dunque, osò fiatare ma il dittatore, nella sua magnanima condiscendenza, volle dare risposta alla domanda che lesse sul volto degli ascoltatori. Spiegò, dunque: «So che, dentro di voi, vi chiedete per quale ragione vi ordini di moltiplicare i costi dell’opera e non solo per gli arredi e le opere d’arte ma anche perché desidero che lo scavo sia gigantesco, voglio che ogni stazione sia vasta come una cattedrale. È proprio a questo che penso: alle cattedrali. Come sapete, abbiamo strappato i popoli dell’Unione Sovietica alla superstizione religiosa, abbiamo chiuso o distrutto le chiese, abbiamo trasferito nei magazzini dei musei le icone, fuse le campane, trasformate in monete gli ori degli oggetti di culto. Ma so che i lavoratori sentono nostalgia dei tempi in cui, almeno una volta la settimana, potevano lasciare la bruttura delle loro case e, nello splendore delle chiese, in lunghe liturgie, potevano essi pure essere circondati di bellezza, quasi come i re nei loro palazzi.
Ecco: voglio venire incontro a questa nostalgia, voglio contrastarla permettendo agli operai di godere, due volte al giorno,
di una bellezza che compensi quella perduta.
Andando e tornando dal lavoro sembrerà loro di frequentare le cattedrali più belle, quelle che abbiamo chiuso o abbattuto. Anche l’uomo nuovo comunista ha bisogno di bellezza, noi gliela daremo non nelle anacronistiche chiese ma nel sottosuolo di Mosca, nelle stazioni della metropolitana della capitale del comunismo mondiale».
Stalin, come si sa, era stato a lungo seminarista della Chiesa ortodossa della Georgia, dunque se ne intendeva: sapeva che (a differenza di quanto dimenticano da qualche decennio tanti, troppi “cattolici socialmente impegnati”) sapeva che i poveri non solo non si sono mai scandalizzati, in nessun tempo e in nessun luogo, della ricchezza, magari del fasto delle chiese, ma l’hanno sempre sentita come un loro diritto.
Il diritto di godere essi pure di una bellezza non riservata ai privilegiati bensì aperta a tutti; il diritto, almeno un’ora alla settimana, di sentirsi circondati di opere d’arte e di oggetti di gran pregio. Oggi, invece, ecco la nostra situazione: lo Stato non demolisce più le chiese ma nelle periferie, vescovi, preti, religiosi ne costruiscono ancora di nuove. Partorendo, nella maggioranza dei casi, quegli orrori repellenti che sappiamo, dove la bellezza è assente non solo per incapacità di architetti e mancanza di artisti veri (c’è anche questo) ma anche, troppo spesso, per partito preso, perché così vuole certa ideologia clericale. Ai russi, almeno, Stalin dava per consolazione delle stazioni- cattedrale, mentre a noi restano soltanto, più che dei templi, dei “luoghi di dialogo, di confronto, di socializzazione”.
Funzioni per le quali ciò che ci vuole è un hangar, un capannone, un’aula disadorna.
A proposito di Unione Sovietica: fu essa che, trattando brutalmente quella Chiesa ortodossa russa che perseguitava, decise di adeguarsi alla decisione di un pontefice romano.
Un paradosso significativo. Lenin, insomma, che accettava e imponeva una decisione di un Papa che proprio dei cristiani da secoli non volevano accettare. Vale la pena di raccontarlo. Come tutti sanno, papa Gregorio XIII decise nel 1582 di mettere mano all’antico calendario che, a causa delle insufficienti conoscenze astronomiche, era ormai sfalsato di una decina di giorni rispetto alle fasi stagionali.
I Paesi cattolici accettarono subito la riforma, necessaria e attesa da tempo. Non così quelli protestanti che diedero un esempio poco edificante di settarismo, rifiutando un calendario elaborato dai migliori scienziati e matematici dell’epoca, uno strumento che risolveva molti problemi anche pratici, ma che aveva un peccato originale. Quello, cioè, di essere stato redatto da una commissione convocata dalla Chiesa cattolica.
Non era certo questione di teologia ma di scienza e tutti i sapienti, di qualunque confessione, concordavano che i risultati del lavoro erano stati i migliori possibili. Eppure, i Paesi dove il protestantesimo era maggioranza continuarono a servirsi dell’antico, imperfetto calendario giuliano: elaborato sì anch’esso a Roma, ma in quella pagana, non in quella pontificia. Per fare un solo esempio ma significativo: l’Inghilterra, che pur aveva interessi non solo in Europa ma in tutti i continenti conosciuti e quindi necessitava in modo particolare di una concordanza nelle date, si decise ad adottare la riforma di papa Gregorio solo nel 1752. Nella Svizzera, che era unita in una confederazione, i cantoni cattolici si erano subito adeguati al nuovo calendario ma quelli protestanti si rassegnarono soltanto un paio di secoli dopo o addirittura – come alcune zone dei Grigioni – verso il 1810, con quasi due secoli e mezzo di ritardo.
Ancor più tenace fu il rifiuto previo, di principio, nell’area dell’ortodossia greco-slava. Mosse essi pure dal rifiuto di tutto ciò che venisse da Roma, foss’anche un risultato scientifico, quelle Chiese non vollero accettare la riforma gregoriana. Non solo continuarono a seguire l’antico calendario giuliano per l’anno liturgico, ma ottennero che anche gli Stati e i loro governi lo imponessero a tutti, pure al mondo civile. In Grecia si giunse persino a uno scisma quando, nel 1924, il Santo Sinodo di quel patriarcato tentò un compromesso e decise di accettare il calendario del XVI secolo per le feste fisse, conservando quello antico per le feste mobili, a cominciare dalla Pasqua. Ci fu una insurrezione – fomentata dai monaci,
con quelli del Monte Athos tra i primi – e si gridò anche sulle piazze che la Chiesa greca si sottometteva al cattolicesimo e ne nacque una comunità scismatica che ancora esiste.
La stessa rivolta esplose in Bulgaria. Per superare quella allergia dei popoli ortodossi verso un pontificato che aborrivano, sarebbe occorso un despota che le domasse. E proprio questo accadde in Russia. Quel despota fu nientemeno che Lenin che nel marzo del 1923, un anno prima della morte, impose per diktat a tutti, in tutti i territori della giovane Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il calendario gregoriano. Fu dunque il più feroce apostolo del XX secolo dell’ateismo e del materialismo dialettico a voler adottare una misura, voluta ed elaborata da quel cattolicesimo in cui vedeva uno dei principali avversari. Ma, per ancora maggior paradosso, successe pure che mentre il governo dei “senza Dio” accettava un sistema “cattolico”, quanto restava della Chiesa russa, soggetta alla sanguinosa persecuzione che sappiamo, si ostinava in un rifiuto indomabile.
Già che siamo a parlare di marx-leninisti: mi ricapita tra mano un breve saggio di Friederich Engels, l’industriale che manteneva Marx con il “plusvalore” ottenuto sfruttando gli operai della sua industria in Inghilterra.
Quel Marx che, convinto di essere il maggiore degli economisti, il più profondo esperto della produzione e della distribuzione della ricchezza, moriva letteralmente di fame. Questo sia detto en passant, tanto per ricordare quanta differenza ci sia tra le ideologie della modernità e la realtà concreta degli ideologi.
Sfogliando, comunque, il vecchio pamphlet di Engels mi stropiccio gli occhi cascando sulla frase seguente:
«Il movimento che fu detto dei Valdesi nacque come reazione di pastori patriarcali delle Alpi contro il feudalesimo che avanzava e che minacciava anche loro». È vero, esattamente, il contrario. Possibile che la realtà storica sia talmente deformata per metterla a servizio dello schema precostituito della lotta di classe come spiegazione di ogni aspetto della vicenda umana? Il Valdismo, in effetti, nacque in città importanti e ricche come Lione, fu ispirato e guidato da borghesi di quelle città e, spinto da persecuzioni, si rifugiò sulle Alpi molto tempo dopo, quando il feudalesimo era ormai in pieno declino.
Di “pastori patriarcali” come mitici padri non c’è proprio traccia. Vabbé, la propaganda ha le sue leggi, non stupisce che ci siano propagandisti politici come Marx ed Engels pronti a ogni deformazione in nome della “causa”. Ciò che stupisce è che, per tanto tempo, l’intellighenzia considerata più avanzata del mondo, quella dell’Occidente, sia stata disponibile, militando nei partiti comunisti, a prendere sul serio simili idiozie.
Carlo Cattaneo, sulla sua celebre rivista, Il Politecnico, anno 1860, subito dopo l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna che, l’anno successivo, si trasformerà in Regno d’Italia: «La politica è casta e ama le parole che velano la nudità del reale». Leggo e strabilio: già allora, ecco una bellissima definizione dell’attuale ideologia egemone, quella del “politicamente corretto”, con le sue ipocrisie verbali, con i suoi camuffamenti, dietro parole flautate, della “nudità del reale”. Il guaio è che Cattaneo parlava della sola politica, ora quella “castità” ruffiana si è allargata a tutta quanta la realtà.
A proposito di parole. Da una lettera di un lettore a un quotidiano autorevole, apprendo che sugli autobus di Reggio Emilia la voce registrata che annuncia l’itinerario del mezzo si esprime così: «Prossima fermata, via esse Pietro» e, per la fermata successiva, «Chiesa di esse Pietro».
Sono nato da quelle parti, anche se non vi ho mai abitato, e quella Sassuolo in cui ho visto la luce è in provincia di Modena ma nella diocesi giustappunto di Reggio Emilia. So bene, dunque, quali e quante castronerie (per non dire peggio) abbiano fatto in questi decenni, almeno in politica, quei miei conterranei.
Ma non immaginavo che arrivassero addirittura a scimmiottare gli “scristianizzatori” della fase più radicale della Rivoluzione Francese, la fase in cui si cercò di cancellare ogni traccia della vecchia fede anche cambiando laicamente il nome di ogni località che ricordasse santi, madonne e, in generale, ogni termine che ricordasse in qualche modo una dimensione religiosa. Sembra, dunque, che a Reggio Emilia, non potendo spingersi a cancellare indicazioni come “san Pietro”, si sia almeno rimosso l’inviso termine di “santo”, sostituendolo con un “esse”.
Se davvero è così, c’è forse da indignarsi? Ma no, soltanto da ridacchiare scuotendo il capo, come meritano simili scempiaggini. Il ridicolo, non dimentichiamolo mai, ne uccide più che la spada. Anche perché la storia lo conferma da ormai venti secoli: gli “scristianizzatori” passano, i santi restano.
Continuando a parlare di chi vorrebbe farla finita con la fede nel vangelo: ci è già capitato qualche volta di accennare a Piergiorgio Odifreddi, l’ex seminarista di Cuneo divenuto matematico e autore di libri del tipo Perché non è possibile essere cristiani e meno che mai cattolici.
Giusto a proposito di santi, questo crociato non dell’agnosticismo ma dell’ateismo puro e duro porta con disagio il nome datogli dai genitori, cattolici ferventi. “Piergiorgio”, cioè, in onore del giovane Frassati, beatificato da Giovanni Paolo II ma, sin dagli anni Trenta, modello di quella gioventù cattolica nella quale anche il Nostro si è formato. Niente di nuovo, naturalmente. Per il primo esempio, tra mille, che mi viene in mente:
Robespierre fu forgiato, sino alla laurea in legge, dai gesuiti di Arras, la sua città. E abbiamo appena ricordato che anche Stalin si preparava al sacerdozio.
Assicura comunque san Tommaso che «ogni verità viene dallo Spirito Santo, da chiunque sia detta». Dunque, ci sono verità anche se sono dette da un Odifreddi, il quale ha suscitato polemiche tra i benpensanti pubblicando una “intervista immaginaria” nientemeno che ad Adolf Hitler.
E questo per denunciare, prove alla mano, l’ipocrisia della cultura occidentale attuale, soprattutto di quella degli Stati Uniti, dove è obbligatorio un misto di sdegno e di ribrezzo per il razzismo nazionalsocialista.
Sarà istruttivo riprodurre qui le risposte ad alcune domande dell’intervistatore come: «Non vorrà negare, Fuehrer, la sua aberrante, criminale politica eugenetica ».
Replica dell’Hitler cui Odifreddi dà voce: «Perché mai dovrei negarla? Era un mezzo per ottenere la purezza della razza. Ma non capisco cosa ci troviate di aberrante: la mia legge del 1933, per la prevenzione dei difetti ereditari, era esplicitamente basata sul modello americano di Harry Laughlin al quale noi demmo per questo motivo una laurea honoris causa a Heidelberg, nel 1936. Lo sa che la prima legge per la sterilizzazione di “criminali, idioti, stupratori” fu promulgata nel 1907 dallo stato dell’Indiana, imitato poi da una trentina di altri Stati dell’Unione e che questa legge fu dichiarata legale nel 1927 dalla Corte Suprema degli Usa? Lo sa che negli anni Trenta, sempre in quel Paese, furono sterilizzati 60.000 individui, metà dei quali in California? E che negli anni Cinquanta furono castrati – non chimicamente come ora dite, ma a colpi di bisturi – più di 50.000 omosessuali?». Ma l’intervistato da Odifreddi continua ancora, visto che il materiale (autentico, va pur detto) non gli manca di certo: «Ricordate voi chi, nel 1916, scrisse quel grande trattato del razzismo che è Il passaggio alla Grande Razza? Lo scrisse Madison Grant, grande amico di Theodore Roosevelt. Quando il libro fu tradotto in tedesco, mandai all’autore una lettera entusiasta di cui lui fu molto compiaciuto. E, a proposito del presidente Roosevelt, non dimenticate che Peter van derBerghe, il grande studioso delle discriminazioni, lo ha messo insieme a me e a Hendrik Verwoerd, l’ideatore dell’apartheid sudafricano, nella Trinità del Razzismo del Novecento».
Sono, queste, cose vere e inconfutabili. Almeno per una volta, la nostra solidarietà è andata a quel Piergiorgio quando è stato attaccato, reo soltanto di avere tirato fuori dal proverbiale armadio scheletri imbarazzanti per troppi intellettuali. â–
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