La felicità accessibile all’uomo in questa vita è legata alla sua moralità: infatti l’uomo veramente morale esercita le virtù motivato dall’amore. E la felicità umana dipende dall’amore.
L'uomo morale è un uomo infelice? frustrato e )complessato? È un uomo che rinuncia alla propria spontaneità e si mutila da solo la possibilità di cogliere le migliori gratificazioni della vita? Queste domande e altre simili esprimono l'obiezione più radicale che si possa muovere all'etica nella sua globalità, che Nietzsche ha proclamato con molta efficacia e che il senso comune odierno spessissimo sostiene: tra moralità e felicità c'è un'opposizione insanabile, una scissione irriducibile, perciò è più assennato vivere immoralmente ma felicemente.
Eppure fino a Tommaso d'Aquino l'etica era intesa come la via per conseguire la felicità e l'uomo moralmente buono, che cioè esercita le virtù, era considerato l'uomo che giunge alla felicità più profonda possibile in questa vita. Come è possibile? È vero che, come già dissero Socrate e Platone, l'uomo giusto è più felice dell'ingiusto?
Non è possibile qui ricostruire ogni tassello del nesso tra moralità e felicità (perciò cfr. bibliografia), ma di certo bisogna chiedersi: in che cosa consiste la felicità? Un modo intuitivo di comprenderlo è prendere le mosse dal suo opposto, l'infelicità. Questa è senza dubbio una condizione di solitudine autentica e continuativa: un uomo realmente e continuamente solo è un uomo tremendamente infelice (cfr. già Aristotele). Un uomo che non intrattiene relazioni significative con nessuno (nemmeno con Dio) è un uomo terribilmente infelice: cioè non si può essere felici da soli, perché l'uomo è un essere sociale (Aristotele). Naturalmente non basta vivere in mezzo agli altri per eliminare la solitudine, perché si può restare soli anche in mezzo ad una folla o ad una adunata oceanica se le relazioni con gli altri sono superficiali (Kierkegaard). Per rimediare alla solitudine bisogna entrare in comunione con essi, partecipare a loro la nostra vita e partecipare alla loro vita. Ora, ciò è reso possibile dall'amore che (cfr. Dionigi l'Areopagita) è: una forza estatica, che cioè ci fa fuoriuscire da noi stessi, ci proietta verso gli altri, ci fa spostare il nostro baricentro vitale presso gli altri e ci fa «dimorare» presso di loro; una forza unitiva, che cioè realizza l'immedesimazione con gli altri, ci fa entrare in comunione con loro, ci fa vivere la loro vita, ci fa provare le stesse gioie e gli stessi dolori.
Quindi se l'infelicità consiste nella solitudine, la felicità, che è l'opposto dell'infelicità, deve coincidere con l'opposto della solitudine, pertanto con una condizione di comunione interperso-naie, che è possibile instaurare mediante l'amore.
Insomma c'è una connessione tra amore e felicità, di cui è facile trovare delle conferme: infatti tutto ciò che facciamo per amore ci risulta tanto più gioioso quanto più è intenso l'amore che proviamo o, perlomeno, ci risulta meno gravoso. Ad es., andare tutti i giorni a lavorare per puro senso del dovere è molto faticoso, mentre andare a lavorare per amore di mia moglie e dei miei figli (e per amore di Dio se ho senso soprannaturale) può diventare una gioia, come molte persone possono confermare. Andare dal posto x al posto y per portare un libro può essere gravoso, andare dal posto x al posto y per portare in regalo un libro ad un amico (cioè per amore dell'amico) diventa gioioso. Gli esempi si potrebbero moltiplicare e ognuno può pensarne di più efficaci, per mostrare che l'amore può trasfigurare le nostre azioni e renderle gioiose, fino al punto che gli uomini con grande fede possono provare gioia anche in condizioni di acuto dolore fisico, perché, per amore, offrono questo loro dolore a Dio perché ne ricavi un bene.
Tutto ciò cosa c'entra con il rapporto tra felicità e moralità? C'entra eccome, perché l'uomo veramente morale è l'uomo che vive motivato dall'amore e le vere virtù sono proprio espressioni di amore (S. Agostino). Ad es., cercare di conseguire la virtù della giustizia significa cercare il bene dell'altro, per amore dell'altro o per amore di Dio; esercitare la fortezza significa sopportare le difficoltà e gli sforzi per amore di qualcuno o per amore di Dio; esercitare la prudenza significa reperire i mezzi per procurare il bene di chi amiamo, sia un'altra persona o Dio; esercitare la temperanza significa custodire noi stessi capaci di donarci a chi amiamo. Dunque, la connessione tra felicità e amore, e tra amore e moralità, determina quella tra felicità e moralità, perciò l'uomo veramente morale e virtuoso è un uomo felice. Pochi se ne avvedono perché ormai noi siamo abituati da secoli di legalismo a pensare che l'uomo virtuoso sia colui che vive un'esistenza a colpi di senso del dovere, motivato dalla pressione di obblighi, norme, divieti e imperativi. Ma questa non è la vera moralità (contrariamente a quello che pensava Kant): l'uomo veramente morale rispetta sì gli obblighi e le norme etiche, ma la sua motivazione è l'amore: andare a lavorare è compiere il proprio dovere, ma l'uomo veramente morale lo fa per amore, dei suoi cari e/o di Dio.
Ora, quanto detto fin qui comporta un paradosso: la felicità la consegue chi non la cerca per se stesso. Numerosi filosofi insegnano che la felicità è la conseguenza e l'effetto di una prassi che non se la pone come obiettivo. Infatti, come detto, soltanto l'amore genera la felicità e il vero amore si prefigge la felicità degli altri. La felicità, dunque, è gioia della felicità dell'altro (Leibniz), o (nel caso in cui l'altro non sia felice) gioia del cercare la felicità dell'altro: «la porta della felicità si apre verso l'esterno», cioè verso gli altri (Kierkegaard).
Tutto ciò è confermato dall'esperienza clinica della psichiatria contemporanea: «la ricerca diretta della felicità è autodistruttiva: è una contraddizione in sé […] proprio nella misura in cui l'individuo comincia a cercare direttamente la felicità, o a sforzarsi di conseguirla, in quella stessa misura non può raggiungerla. Quanto più si sforza di guadagnarla, tanto meno la consegue» (J. Cardona Pescador, La depressión, psicopatologia de la alegria, Ed. Cientifico-Médica 1983, pp. 106-107).
La felicità allora è un dono divino, che non può essere direttamente perseguito. Se c'è qualche cosa che è «dono degli dei agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani» (Aristotele, Etica Nicomachea, 1099b, 10-15).
Insomma, all'uomo veramente morale, che esercita l'amore come dono di sé agli altri, arride la felicità come dono divino.
RICORDA
«Ogni vero amore è senza calcolo e, ciononostante, ha ugualmente la sua ricompensa; esso addirittura può ricevere la sua ricompensa solo se è senza calcolo».
(Bemardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, Cambridge 1926, p. 32).
BIBLIOGRAFIA
Giacomo Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d'Aquino, Vita e Pensiero 2002.
Servais Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Ares 1992, pp. 26-64.
Luigino Bruni, L'economia, la felicità e gli altri. Un'indagine su beni e benessere, Città Nuova 2004.
Tomas Meiendo Granados, La chiave della felicità, in «Fogli», 277 (2000), pp. 4-31.
IL TIMONE – N.39 – ANNO VII – Gennaio 2005 pag. 32 – 33