Guerre tra bande. Gruppi criminali che si fronteggiano per impossessarsi di zone strategiche in cui viene trasportata la droga. E che si combattono a suon di armi a lunga gittata, mitragliatrici e granate. Che spesso finiscono per colpire la comunità locale, tra cui i cattolici. E’ l’allarme lanciato qualche anno fa dal vescovo Rumen Dario Jaramillo, della diocesi di Buonaventura, in Colombia. La sua è una delle storie che trovano spazio nell’ultimo report dell’organizzazione Open doors intitolato “Insecurity”, ossia “Insicurezza”. Al centro c’è il tema della persecuzioni ai danni dei cristiani e in particolare la differenza tra quelle subite dalle donne e quelle subite dagli uomini. Sì perché anche i maschi cristiani sono maltrattati. Come abbiamo detto altre volte, la violenza non ha genere.
Nel report si legge che uomini e ragazzi rischiano di subire violenza fisica in 39 dei 50 Paesi della World Watch List 2023, ossia la classifica annuale dei cinquanta Paesi in cui i cristiani vivono una limitazione delle loro libertà. Principalmente si tratta di Paesi asiatici, nordafricani, oltre a Messico, Colombia, Nicaragua e Cuba. Il report spiega che «in molti Paesi oggetto dello studio, i leader delle chiese sono prevalentemente uomini. In quanto tali, sono sono esposti a persecuzioni specifiche e violente per il loro ruolo». Per loro il rischio è anche quello di finire obiettivi di un’imboscata, o essere aggrediti a motivo della loro carica. Non solo, alla violenza fisica si affianca quella psicologica, che principalmente ha la forma del controllo, del monitoraggio dei movimenti e delle pressioni psicologiche.
E le donne? Per loro tra i rischi maggiori – secondo il report – c’è quello dell’essere obbligate a matrimoni forzati, in particolare in alcuni Paesi africani teatro di conflitto, come ad esempio il Camerun, dove è in corso una vera e propria guerra civile, questo perché, si legge sempre nel report «appartenere ad una minoranza religiosa marginalizzata può rendere alcune persone particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale durante gli assalti, violenza che può restare nascosta in situazioni in cui la violenza stessa è già prevalente».
E poi c’è la storia di Sara (nome di fantasia), cresciuta in Iraq, a Bagdad, in una famiglia islamica, ma la cui migliore amica era cristiana. Grazie a lei Sara inizia a conoscere le Scritture, si fa sempre più curiosa, fino al desiderio di conversione, che la porterà a litigare in modo furente con suo padre quando ha soltanto quindici anni. A quel punto – spiega il report – il padre decide di darla in sposa ad un parente, e per non sottostare al ricatto Sara scappa da casa e trova rifugio in una comunità cristiana nel nord del Paese.
Un’altra zona altamente a rischio, si legge, è lo stato indiano del Manipur, teatro di scontri etnici tra Meitei (induisti, che rappresentano la maggioranza della popolazione) e Kuki (minoranza etnica di fede cristiana). Il report spiega che in questo contesto a farne le spese sono state, tra gli altri, la figlia di un pastore evangelico, molestata sessualmente, così come una donna di cinquantadue anni, mentre una ragazza di ventuno sarebbe stata addirittura uccisa nella zona di Konung Manang.
Un quadro di fronte a cui l’organizzazione Open Doors chiede ai Governi un’attenzione sempre maggiore e rimarca il ruolo fondamentale delle donne nei processi di pace, in particolare viene citata ad esempio Leymah Gbowee, Nobel per la Pace 2001. Peccato che l’attivista liberiana da anni collabori con Planned Parenthood – il colosso abortista americano – promuovendo i cosiddetti diritti riproduttivi e quindi promuovendo soppressione di bambini innocenti. Noi preferiamo di gran lunga un’altra donna, un altro Nobel per la Pace, quello del 1979, Madre Teresa di Calcutta che affermava: «l’aborto è la più grave minaccia per la pace».
(Fonte foto: Screenshot, Open Doors US, YouTube)
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