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A Dio monsignor Vecchi, un pastore schietto: «C’è una cultura che distrugge madre natura»
NEWS 30 Maggio 2022    di Redazione

A Dio monsignor Vecchi, un pastore schietto: «C’è una cultura che distrugge madre natura»

Nella serata di sabato 28 maggio, a causa di un malore mentre si trovava nella sua residenza, è morto monsignor Ernesto Vecchi, vescovo ausiliare emerito di Bologna. Lo ricordiamo con affetto perché è stato un lettore del Timone, a volte critico, ma sempre con simpatia e benevolenza. Il 18 luglio 1998, dopo aver guidato con successo il Congresso eucaristico nazionale, fu eletto Vescovo titolare di Lemellefa e Ausiliare dell’Arcidiocesi di Bologna da san Giovanni Paolo II e ricevette l’ordinazione episcopale dal card. Giacomo Biffi. È stato vicario della diocesi di Bologna fino al 2011, quando si ritirò per motivi di età. Il 2 febbraio 2013 Benedetto XVI lo nominò Amministratore Apostolico della Diocesi di Terni-Narni-Amelia, incarico che terminò il 21 giugno 2014. Proprio dal periodo a Terni pubblichiamo di seguito uno stralcio dell’omelia pronunciata da Vecchi il 14 febbraio 2015, in occasione della festa di San Valentino, patrono di quella diocesi. Chi scrive lo ha conosciuto personalmente e lo ricorda innanzitutto come un bolognese doc, un pastore schietto, capace di esprimersi anche in dialetto con rara efficacia. Capace di parlare di tutto e di farsi ascoltare. (L. Bertocchi)

di Ernesto Vecchi*

[…] La vera devozione a San Valentino, dunque, vede in Lui anzitutto l’icona sacramentale di Cristo Capo, Pastore e Sposo, modello di ogni martirio, il campione del dono di sé, il testimone dell’amore verso Dio e il prossimo, vissuto nella concretezza dei rapporti umani, tra i quali occupa un posto preminente il rapporto affettivo tra l’uomo e la donna. Pertanto, il pluriforme e planetario movimento devozionale valentianiano, pur con tutte le sue ambiguità, complicità e fraintendimenti, non è nato dal nulla; così le tante leggende che coinvolgono il Santo Vescovo come protettore dei fidanzati, pur non potendo sempre esibire la certificazione storica, hanno però un comune fondamento teologico: l’annuncio valentiniano dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, inscritto nell’evento dell’Incarnazione del Figlio di Dio (Cf. Card. G. Biffi, Liber Pastoralis Bononiensis, n. 11, p. 253).

Infatti, l’Incarnazione – che stabilisce il principio divino-umano come struttura originaria dell’avvenimento cristiano – è la premessa, il fondamento e l’iniziale realizzazione dell’evento ecclesiale, che è anch’esso un mistero sponsale, il mistero di Cristo che ama la Chiesa, e ha dato se stesso per lei, come scrive San Paolo, il quale mette questo mistero a fondamento del rapporto tra marito e moglie. «Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Cf. Ef 5, 25-32). In tale prospettiva, si coglie il senso profondo di ciò che dice il Vangelo di Matteo: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio» (Mt 22, 1). A questa festa siamo tutti invitati fin dalla nostra chiamata all’esistenza.

Pertanto, la distinzione tra l’uomo e la donna, non è un optional, ma una «vocazione» a entrare in complementarietà nel gioco ineffabile della vita come Dio l’ha pensata, cioè «a sua immagine e somiglianza» (Cf. Gen 1, 27): l’uomo e la donna, nel loro «essere-uomo» ed «essere-donna», riflettono la sapienza e la bontà del Creatore (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 369). Ma oggi, come ai tempi del profeta Geremia e di San Paolo – che abbiamo ascoltato nella prima e seconda lettura – c’è chi rema contro. In occidente, la macchina del consenso mediatico e culturale funziona a pieno regime, e porta gradualmente l’uomo e la donna a perdere la coscienza della verità originaria, inscritta nella loro mascolinità e femminilità. Avanza così un deserto, dove tutto è uguale e indifferente; dove le sorgenti della vita si estinguono (Cf. Card. C. Caffarra, Omelia per San Valentino, 14 febbraio 2014).

Romano Guardini – un grande filosofo e teologo cattolico italo-tedesco, molto amato da Papa Francesco e dal Papa Emerito Benedetto – a metà del secolo scorso, aveva suonato il campanello d’allarme. Il progredire della scienza e della tecnica aveva generato un comprensibile ottimismo, avvertito come «disincanto» del mondo. In realtà, il novecento ha segnato uno dei periodi più bui della storia, con due guerre mondiali, milioni di vittime e forte regresso della civiltà europea. Oggi, a metà del secondo decennio del XXI secolo, si rischia una nuova miopia antropologica: il pensiero unico dominante – egoisticamente attratto da una libertà senza verità – non si accorge delle conseguenze nefaste prodotte, a danno dell’umanità e della stessa democrazia, da una «cultura» che – anziché promuoverla e custodirla – distrugge «madre natura». Una cultura che vuole costruirsi eliminando Dio, non può riuscire, per il semplice fatto che Dio esiste (Cf. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Brescia 1960, pp. 63 e 87).

Ora, non si tratta di mortificare lo sviluppo delle potenzialità umane, ma di dare loro un’«anima», una «forma», che le renda capaci di crescere nell’alveo dell’etica della responsabilità (Cf. R. Guardini, Lettere dal Lago di Como, Brescia 1959, p. 94). Occorre, dunque, un’autocritica dell’età moderna, per riscoprire le nostre radici e recuperare quella verità che ci fa liberi e capaci di viverla nell’amore (Cf. Spe salvi, n. 22). […] (Fonte: Diocesi di Bologna)


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