È morto oggi a Firenze Antonio Paolucci: tra i più stimati storici ed esperti d’arte italiani, è stato direttore dei Musei Vaticani, soprintendente del Polo museale di Firenze, ministro per i Beni culturali durante il governo Dini. Era originario di Rimini, dove era nato il 19 settembre 1939: allievo di Roberto Longhi, era entrato nell’amministrazione dei beni culturali nel 1969. Proponiamo ai lettori un’intervista da lui concessa al nostro mensile nel marzo 2010.
È il «custode di Michelangelo»: chi, tra i critici e gli appassionati d’arte, potrebbe desiderare di più? E infatti Antonio Paolucci corona come direttore dei Musei Vaticani una prestigiosa carriera che l’ha visto esercitare le funzioni di soprintendente delle Belle Arti a Venezia, Mantova, Firenze nonché di ministro dei Beni culturali tra 1995 e 1996. Il «volto di Cristo» che ora può vedere ogni giorno è quello – terribile e potente – del Redentore nella Cappella Sistina.
Professore, ogni epoca ha cercato di rappresentare a suo modo il volto di Cristo. Ma nella storia dell’arte quali sono a suo parere i tentativi più riusciti, o almeno quelli a cui è più affezionato?
«Come si fa a rispondere? Anzitutto, cominciamo a dire che nella grande arte non è mai esistito nessun tentativo per cercare di riprodurre il volto di Cristo così com’era in vita, diciamo un ritratto dal vero o un identikit fisiognomico. L’artista riproduce invece il “volto santo”, ovvero qualcosa che va oltre la pura percezione sensoriale: l’ideale della divinità incarnata, insomma, e per questo ognuno l’ha rappresentata a suo modo. Personalmente posso dire che il “volto santo” che mi ha emozionato di più è un viso tra l’altro celato, o almeno fortemente tagliato in scorcio: quello del Cristo morto di Mantegna. Lì c’è l’Uomo dei dolori presentato in tutta la sua brutale identità».
Mi permetto di correggerla, però: ci sono stati sì dei tentativi di riprodurre il «vero volto» di Gesù, basta pensare a certe icone…
«Sì, ci sono stati i “volti santi” riprodotti dalla Sindone, o ispirati alla pia leggenda della Veronica che riceve in dono il ritratto delle reali fattezze di Cristo. Ma tentare di risalire al vero volto di Gesù è ciò che chiamo la stolta tautologia scientista di cercare di banalizzare l’ineffabile. Che importa sapere se Nostro Signore era biondo o moro, alto o basso? A me piace pensarlo come un piccolo rabbi ebreo, nero di capelli, occhi pure neri, una corporatura minuta e ossuta e caratteri semitici. Ma se i cinesi lo immaginano altrimenti, non c’è nulla di male».
Ancora oggi invece si fa largo la tendenza a ricostruire il più realisticamente possibile, quasi come una fotografia, il volto di Cristo, magari aiutandosi con i tratti della Sindone o con le nuove tecnologie virtuali.
«Ma l’arte non si deve affatto adeguare a questi dati! Quanto Rouault fa i suoi volti di Cristo, sono le immemori ali icone proto-romaniche che lo colpiscono. Nel Cristo che converte Matteo, il Caravaggio raffigura un uomo bello, bruno, che entra dalla porta insieme alla luce; e non a caso la mano è riprodotta da quella dell’Altissimo che crea Adamo nella Cappella Sistina. Un artista non lavora mai su dati scientifici, bensì sull’immaginario, su elementi che vanno oltre la logica; e guai se non fosse così. Un altro esempio: quando Piero della Francesca dipinge Cristo che sorge dal sepolcro rivestito da un mantello rosa, come il colore dell’alba, quella è la metafora del sole nascente, tant’è vero che sullo sfondo appaiono alberi ancora stecchiti dal letargo dell’inverno. Insomma, la resurrezione non come fatto di cronaca ma che diventa figura metaforica e teologica del rinnovamento dell’universo, del mondo che cambia colore».
C’è stato un periodo in cui la raffigurazione della divinità, e dunque anche di Gesù, era proibita per timore di idolatria: tanto che si sviluppò la pia tradizione delle immagini «non fatte da mano d’uomo» ma formatesi miracolosamente.
«Un momento: per grande fortuna della storia dell’arte, la Chiesa d’Occidente fin dall’inizio ha compiuto un’opzione rischiosa ma importantissima: quella del vero. L’iconoclastia è stato un fenomeno orientale, noi invece abbiamo scelto l’azzardo della realtà. Questa è la grandezza dell’Occidente e anche il primo merito artistico della Chiesa romana: di cui dobbiamo esserle grati, perché altrimenti non ci sarebbero stati Rembrandt o Monet. In Occidente nessuno ha mai proibito la raffigurazione e così gli artisti cristiani hanno potuto riprendere e tramandare gli stimoli della tradizione romana; non per nulla nei primi sarcofagi Cristo ha il volto di Orfeo, il profeta Daniele nella fossa dei leoni ha il corpo di Ercole. È l’incarnazione, la verità della vita, sono i muscoli e il sangue, la scelta di essere nel mondo così com’è cercando di capire tutto: il dramma dei sentimenti, la profondità delle psicologie, la forza dei gesti. Era un’enorme scommessa. E la Chiesa l’ha accettata».
Oggi che siamo all’arte informale, però, c’è forse una difficoltà oggettiva in più a dipingere il «volto di Cristo». Quali sono, secondo lei, le strade su cui deve incamminarsi l’arte religiosa?
«Paolo VI non voleva che si parlasse di arte religiosa. Quando è autentica – sosteneva –, ovvero quando racconta il mistero, la vita e la morte, gli affetti, la grande arte è sempre religiosa, perché muove ciò che è sopra e ciò che sta sotto i puri aspetti materiali. Comunque, secondo me il guaio dell’arte contemporanea che vuol trattare argomenti religiosi è di essere caduta nell’inganno spiritualista, diventando evanescente e simbolica quando invece dovrebbe avere il coraggio di incarnarsi, diventare carne e sangue del mondo d’oggi. Ripeto: per dipingere la vocazione di un apostolo, Caravaggio entra in una taverna malfamata di Trastevere; noi dovremmo forse andare negli autogrill. E invece si fanno cose insignificanti, letteralmente: cioè che non hanno significato».
Vuol dire dunque tornare al figurativo?
«Ma certo, perché la parola ha bisogno della figura. Se la parola vuol diventare vita, deve diventare figura: ciò vale nella politica, nella pubblicità e in qualunque campo. Con l’informale si fanno belle decorazioni, romantiche, ma non si può dipingere la chiamata di Matteo».
Lei ha segnalato altre volte che, nella vicenda tragica del Novecento, l’immagine più adatta di Gesù è l’«Ecce Homo», l’Uomo dei dolori; e, conoscendo la storia, si capisce perché. Ma – da teorico dell’estetica – come concilia questa scelta con la nota affermazione che sarà «la bellezza a salvare il mondo»?
«Ho sempre detto che in nessun’epoca della storia Cristo è stato più a casa sua che nel Novecento delle dittature, delle guerre, degli estremismi, cioè negli orrori della bruttezza. Anche da questo impasto orrendo può infatti venir fuori la bellezza, attraverso la grandezza di un gesto o nell’eroismo di pochi. Che “la bellezza salverà il mondo” poi è una bella frase di Dostoevskji; ma io credo che il mondo verrà salvato dal buon senso, dalla fraternità, dalla cooperazione della gente. E ci sono state epoche nella storia in cui questo senso di pace e d’armonia ha preso figura attraverso l’arte; penso alla Grecia classica. Periodi felici in tal senso li abbiamo avuti; perché non dovrebbero tornare?». (Il Timone, n. 91, pag 42-43)
(Foto Imagoeconomica)
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