In un Afghanistan che sembra crollare, rischia di restare sotto le macerie anche la piccola comunità cristiana. Quattro Missionarie della Carità hanno però deciso di rimanere in mezzo al caos per continuare ad aiutare. La superiora della casa generalizia di Roma, raggiunta dal Timone, si limita a poche parole: «In questi giorni viviamo totalmente di fede. Le nostre quattro sorelle stanno bene, ma non possiamo dirvi altro, se non che la soluzione a questo punto è solo in mano a Dio». La voce, dolce ma ferma, invita tutti alla preghiera: «Se volete aiutarci, pregate».
Il profugo cristiano
Per l’esule Ali Ehsani, oggi insegnante, «è già partita la feroce caccia ai cristiani». Ehsani, che ha perso i genitori a otto anni e che è fuggito dal suo Paese insieme a suo fratello in un drammatico viaggio durato cinque anni – si appella alla comunità internazionale: «Non può rimanere indifferente, deve muoversi con sanzioni contro chi sostiene i talebani, […] Pakistan, Iran e la stessa Cina». Ehsani conosce bene la sua terra ed è consapevole che «nelle province occupate i talebani intimano alle ragazze dai 14 anni in su di presentarsi per essere “donate” ai guerriglieri». All’Agenzia AGI l’autore di Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli, 2016) ricorda la sua fede cristiana ricevuta proprio a Kabul: «I miei genitori mettevano sempre un piatto in più a tavola per gli ospiti. Io dicevo loro: “Siamo poveri, come facciamo a ospitare?”. Mio padre rispondeva: “Gesù condivideva tutto con gli altri”. Allora io chiedevo: “Chi è Gesù?”. E lui diceva: “Noi siamo cristiani”. Senza aggiungere nulla».
Sharia moderata? Già smentita
Prima della cacciata dei talebani post 11 settembre, alle donne era impedito di uscire di casa senza un accompagnatore maschio. Non potevano neanche lavorare o andare a scuola. Ci volle la copertina del Time su Aisha a scioccare il mondo. Come ricorda il Sun riproponendo la foto, eravamo nel 2010 e quella foto con il naso mozzato dalla furia islamista era accompagnata con una didascalia profetica: «Cosa succede se lasciamo l’Afghanistan?». Ieri il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid è sembrato rispondere. In una conferenza stampa ha sostenuto che questa volta «i diritti delle donne saranno onorati attraverso leggi restrittive della sharia». I talebani hanno addirittura esortato le donne a tornare a scuola e al lavoro, mentre un altro portavoce, in segno di moderazione, ha concesso un’intervista televisiva ad una giornalista. In realtà tutti temono che non sarà affatto così. Già ieri Fox News dava notizia (mostrandone la foto) di una donna sdraiata in una pozza di sangue con i suoi cari accovacciati intorno a lei: era appena stata freddata dagli insorti per essere uscita di casa a capo scoperto, senza burqa.
Mons. Argüello: «Le culture vanno giudicate».
Una chiosa “istituzionale” ma al contempo politically incorrect alla scena straziante di cui ha dato notizia la tv americana, può ritrovarsi nelle parole di mons. Luis Argüello, vescovo ausiliario di Valladolid nonché Segretario generale della Conferenza Episcopale Spagnola. In un coraggioso tweet mons. Argüello ha prima affermato che «L’Afghanistan rivela l’inconsistenza dell’elogio relativistico delle “culture”», aggiungendo poi ciò che la narrazione corrente ha sempre respinto con non poco sdegno: «Non tutte [le culture] meritano lo stesso rispetto “multiculturale”. Devono essere valorizzate [solo] nella misura in cui rendono un servizio alla dignità radicale e universale alla persona: alla vita, alla coscienza, alla libertà e all’uguaglianza».
Dreher: «la guerra è alla morale»
«Non possiamo non conoscere l’entità del tracollo intellettuale e morale delle élite americane», così Rod Dreher, che trova il bandolo della disfatta americana nella questione valoriale, da cui tutto discenderebbe. In un editoriale su American Conservative, Dreher sottolinea quanto l’ossessione dell’esercito USA sulla cosiddetta “diversity” abbiano contribuito a confonderlo e indebolito. Mostrandosi poi molto scettico rispetto alle sicurezze del maggiore Alexander Aguilastratt – motivatore militare americano per il quale «La diversity nell’esercito degli Stati Uniti è la sua forza e il suo moltiplicatore di combattimento» – Rod Drehr invita a guardare oggi una qualsiasi foto dei talebani: «Guarda questi ragazzi. Mancano di diversity. Sai qual era la loro forza? Allah, tribalismo e nazionalismo». Non pago, l’autore de L’opzione Benedetto (che i lettori del Timone conoscono bene) inanella nell’articolo una serie di tremende scudisciate, allo scopo (benefico) di risvegliare dal torpore l’opinione pubblica americana: «Questi idioti sono più interessati alla guerra culturale che alla guerra vera e propria»; «quanti incontri destinati a pianificare un’evacuazione ordinata dell’Afghanistan hanno disertato i nostri vertici militari per poter partecipare all’addestramento sulla diversity?». E ancora: «Un mio amico, il cui figlio è diretto a West Point [sede dell’accademia militare dell’esercito degli Stati Uniti, ndr], mi ha raccontato che nel pacchetto di informazioni appena arrivato al figlio c’è anche un adesivo con la bandiera arcobaleno». Secondo Rod Dreher agli USA non importa più perdere le guerre, piuttosto equipaggiare le proprie truppe per vincere quella più importante: «la guerra contro la morale tradizionale e gli antichi valori americani».
Il suicidio dell’Occidente in un tweet?
La storia si ripete: rispondere al nulla della furia islamista con un altro nulla, rispondere alla sharia con l’ingenuo relativismo del «non c’è nessuna verità», con i teatrini sentimentali fatti di gessetti, di arcobaleni, di Imagine cantata in coro, ci ha riportati al punto di partenza. Come in un beffardo e tragico Gioco dell’oca. A meno che – scrive Dreher – «non affrontiamo il vuoto che cresce nell’anima della nostra nazione e riscopriamo una libertà più nobile». Ma gli Stati Uniti, come l’intero Occidente, sembrano non averlo ancora capito. A dimostrarlo simbolicamente c’è un tweet a firma dell’Ambasciata USA a Kabul. Era il 2 giugno scorso, e mentre i tagliagole talebani organizzavano la riconquista, l’ambasciata americana faceva sapere al mondo che la priorità era celebrare il mese del Pride LGBT. Così sia.
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