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Al boia dicono: «meglio morire che convertirci». Sul “CorSera” la fede che ci striglia dei cristiani irakeni
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18 Settembre 2014

Al boia dicono: «meglio morire che convertirci». Sul “CorSera” la fede che ci striglia dei cristiani irakeni

di Lorenzo Cremonesi

 

"Meglio morire che convertirci”, affermano con aria decisa i cristiani iracheni sfuggiti dalle milizie dello Stato Islamico. Considerano un “traditore” chi per salvare la vita, o anche solo per tenersi soldi e proprietà, ha pronunciato la “Shahada”, la dichiarazione di conversione all’Islam. E dimostrano una fede e una determinazione nel mantenerla che per noi europei figli della secolarizzazione può sembrare una cosa del passato, superata, una memoria di tempi antichi.

“Per un mese ci hanno provato. Ogni giorno venivano a dirci che dovevamo diventare musulmani. Una mattina gli abbiamo detto che forse era meglio se loro si battezzavano. Ma ci hanno picchiato più forte”, raccontano tra i tanti quattro uomini del villaggio di Batnaia, posto a una quindicina di chilometri a ovest di Mosul. Sono Salem Elias Shannun di 57 anni; Habib Noah di 66; Najib Donah Odish, 67, ed il 65enne Yohannah Kakosh: assieme sono arrivati tre sere fa a Erbil, dopo aver convissuto per 22 giorni con i miliziani jiahadisti che occupavano le loro case, quindi essere rimasti rinchiusi 12 giorni nel carcere di Hawuja e infine raggiunto le postazioni curde a Kirkuk. La loro testimonianza offre nuovi elementi per delineare il comportamento degli estremisti sunniti nei confronti delle altre fedi. Ma aiuta anche a ricordare quali e quanti tabù ancestrali sono messi in gioco a causa di questa rivoluzione che sta soffiando persino oltre i confini del Medio Oriente. Sta per esempio emergendo che le donne yazidi violentate in molti casi preferirebbero morire piuttosto che affrontare l’onta del “disonore” nelle loro stesse comunità famigliari. Ieri dall’ospedale di Zakho, nell’Iraq curdo non lontano dal confine con la Turchia, è giunta la segnalazione di tre giovani sfuggite ai mercati del sesso nella zona di Mosul che hanno tentato il suicidio. Una è morta. La cosa non è strana.

Incontrando i famigliari delle donne rapite nei campi di sfollati attorno a Dohuq, specie mariti e fratelli, non è difficile sentirsi dire che preferirebbero un “accurato bombardamento americano che uccidesse le donne assieme ai loro aguzzini”, piuttosto che vivere con la vergogna dello stupro. Per i cristiani le sofferenze sono meno drammatiche. Sino ad ora non sono emerse tra loro prove concrete di donne ridotte a schiave sessuali o di massacri di uomini. Eppure, i tabù e i valori messi in gioco appaiono altrettanto importanti. “La prima settimana dopo il loro arrivo a Batnaia,i jihadisti ci hanno lasciato in pace. Non c’erano minacce da parte loro. Anzi, sono venuti a portarci cibo, acqua. Il nostro villaggio conta circa 3.000 abitanti. Eravamo rimasti in una quarantina. E loro dicevano che dovevamo telefonare ai nostri cari per convincerli a tornare. Poi, però le cose sono rapidamente peggiorate. Hanno cominciato ad insistere che dovevamo convertirci. Tutti siamo stati ripetutamente picchiati. I più giovani in modo prolungato, continuo”, ricordano i quattro. Si mettono quasi a piangere quando descrivono la dissacrazione della “Mar Kariakos”, la basilica locale. “Tra i jihadisti ci sono volontari arrivati dal Sudan, dal Qatar, tanti sauditi, ma anche siriani, libanesi, ceceni, afghani, pakistani. Però il più cattivo è un iracheno sulla cinquantina che si fa chiamare Abu Yakin. Lui mandava i suoi uomini a picchiarci. Ci minacciava. E lui ha ordinato che venissero spezzate le croci in chiesa, ha voluto che le statue della Madonna e del Cristo venissero decapitate e prese di mira con i Kalashnikov”.

Per loro la conversione però è fuori discussione. “Non è tanto la formuletta di adesione all’Islam che vale. Se fosse solo quello, si potrebbe anche fare. Poi ti confessi e finisce tutto, torni cristiano. Il fatto è che i jihadisti ti chiedono di provare la tua nuova fede. Esigono che il neo-convertito vada a combattere con loro, partecipi alle operazioni in prima linea”, dicono. Pochi giorni fa alcuni sfollati dal villaggio di Qaraqosh testimoniavano a riprova di aver visto alcuni giovani cristiani di Mosul diventati autisti delle brigate jihadiste. Lo stesso farebbero anche decine di curdi. Ma per i dirigenti della Chiesa caldea si tratterebbe di infime minoranze e comunque di un problema secondario.

Padre Paolo Mekko, studioso di teologia e parroco in prima linea con la sua diocesi nella piana di Niniveh ora sfollato a Erbil, ha persino rispolverato i testi della storia della Chiesa riferiti agli anni dei primi martiri per cercare risposte. “La Chiesa non ammette un secondo battesimo. I convertiti con la forza nel loro cuore restano cristiani, se si pentono la questione della loro abiura non si pone neppure”, spiega. Si osserva del resto un certo ottimismo crescere tra gli sfollati. Nelle prossime ore a Bagdad dovrebbe venire annunciato il nuovo governo di unità nazionale sotto la guida del neo-premier Haider al Abadi. Un passo considerato fondamentale per la stabilizzazione del Paese, che dovrebbe facilitare il patto di collaborazione con le grandi tribù sunnite in grado di isolare lo Stato Islamico e soprattutto facilitare l’intervento militare degli americani e dei Paesi alleati. I recenti bombardamenti Usa presso la diga di Haditha sono seguiti con attenzione tra i cristiani. “Parlare di ritorno alle nostre case è certo prematuro”, ammette Mekko. “Però possiamo ricominciare a sperare”. Lorenzo Cremonesi

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