Ciao Chiara, il fatto che tu abbia lo stesso nome di mia figlia mi spinge a utilizzare con te un linguaggio colloquiale, ecco perché vorrei scriverti una lettera. Da donna a donna, da mamma a mamma, da lavoratrice a lavoratrice.
Ho ascoltato il tuo monologo della prima serata del Festival di Sanremo. Sai, non faccio parte delle milioni di persone che ti chiederebbero un selfie o che seguono ogni tua mossa con acclamazione o disprezzo. Per questo non rientro neanche tra le persone a cui non piaci. Semplicemente guardo, ascolto, osservo. E l’ho percepita l’insicurezza guardando nei tuoi occhi. Quella che ti ha fatto dire che avresti voluto con tutto il cuore qualcuno che ti dicesse «sei abbastanza», «vali». Concordo con te: «Siamo scatole che contengono meraviglia e vanno aperte con cura».
Hai trovato qualcuno che ti abbia fatta sentire una meraviglia, davvero? Ti svelo anche io un segreto, scrivendoti un versetto della Bibbia che forse non conosci. «Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi», non trovi anche te qualche assonanza? Quel vaso di creta è molto simile alla scatola con su scritto “fragile” di cui hai parlato ieri sera, all’Ariston. C’è però una grande differenza e vorrei parlartene.
Se ieri avessi ricevuto insulti, anziché applausi, se oggi la stampa e i social ti riservassero solo critiche, se non fossi stata lì su quel grande palco, se non fossi conosciuta e riconosciuta in alcun modo, ti sentiresti lo stesso custode di una grande meraviglia? Il rischio è quello di diventare una scatola vuota sai? Fragile sì, ma vuota. Piena solo di noi stessi, del nostro ego. Ego che si nutre di like, applausi, selfie. E che pur di mettersi al primo posto, sacrifica la possibilità di sentirsi una meraviglia anche quando gli occhi della società che tu citavi ti guardano come una nullità. Ci hai mai pensato che potresti valere anche senza tutto questo?
Ti sei presentata con una scritta davvero eloquente – anche se poco inclusiva perché senza asterischi, direbbe qualcuno –, «Pensati libera». Ora, al di là delle considerazioni di stile, a chi ti stavi rivolgendo? Alle tue amiche? Quelle che hai incitato a «combattere sempre» per «cambiare le cose ogni giorno»? Forse hai tralasciato che in nome di questa lotta tante donne stanno barattando la loro essenza per una subdola schiavitù. Tante di queste donne neanche sanno più come definirsi e tante hanno paura anche solo a pensarla, l’innominabile “donna”.
Tante vengono viste come uteri da affittare, da quella parte di società che tu ritieni giusta ed equa. Quello slogan conferma l’ideologia che ci sta rendendo schiave, non più donne, non più forti, ma solo schiave dell’autodeterminazione. Di una società che mentre ci invita a essere libere ci appiccica addosso l’etichetta di oggetti, costringendoci a cercare nemici, non alleati. Allora che cosa significa «vivere liberamente il [proprio] corpo», farci definire “persona con la vagina” piuttosto che “donna”?
Il corpo è quella scatola fragile che hai nominato. E mentre cerco di insegnare a mia figlia il rispetto del suo, devo vederti in televisione nuda – sì, sappiamo che hai chiarito che si è trattato di un vestito disegnato seguendo le tue forme, ma l’effetto è quello – parlare alla te bambina di quanto lei valga. Dimmi, qual è il messaggio che hai voluto mandare? «Essere una donna non è un limite», e allora in che modo osannare forzatamente un corpo nudo dovrebbe dimostrarcelo? Attenzione, così si rischia l’autocelebrazione. A meno che l’obiettivo non fosse proprio quello.
In ultimo, vorrei mostrarti qualche categoria di donne che hai tagliato fuori dal tuo monologo. Quelle che non possono scegliere di essere “solo madri” – e sai, non è un insulto – anche se lo vorrebbero, perché devono lavorare per forza. Quelle mogli che vedono poco i mariti, costretti a fare gli straordinari perché in accordo – e, udite udite, non per forza in lotta con i padri – scelgono di stare a casa. Quelle che vengono guardate male dalle altre donne quando scendono dall’auto con più di un figlio urlante al seguito – che se poi sono tutti piccoli, si salvi chi può dallo sguardo della femminista sul piede di guerra. Quelle a cui viene caldamente consigliato di aspettare i 35 anni prima di pensare a fare figli, che prima si deve pensare alla carriera.
Quelle che scelgono di perdonare un tradimento. Quelle che utilizzano la carta di credito del marito senza sentirsi sminuite. Tutte quelle, insomma, che non hanno le carte in regole per stare sotto l’ala del femminismo imperante di oggi. E forse, quel senso di colpa a cui accennavi, è la profonda consapevolezza scritta nell’anima e nella biologia, che i bambini hanno bisogno della propria mamma. E non significa non lavorare, visto che la società spinge al rientro della mamma a tre mesi dal parto dimezzandole lo stipendio se rientra più tardi. Significa che la maternità dovrebbe diventare una risorsa per tutti e non un problema da risolvere o un “limite”, parafrasando il tuo discorso.
Allora, Chiara, racconta pure la tua storia, la tua scalata al successo, la tua lotta contro gli uomini o gli stereotipi, ma non farla diventare la nostra. Perché la libertà e il valore che tu osanni, non è ciò che vogliono tutte. E le ingiustizie che combatti non sono le stesse per tutte.
Ah, non l’hai percepito anche tu il tono di adorazione paternalistica che ti ha riservato Amadeus mentre ci tranquillizzava del fatto che proprio tu, senza l’aiuto di nessuno, avessi scritto il monologo? Questo rientra negli standard accettabili di femminismo o nella lotta al patriarcato? Non credo avresti riservato lo stesso sorriso, se al posto di Amadeus ci fosse stato qualcun altro. (Foto: Facebook)
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