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Il caso Silvia-Aisha, le ombre delle Ong e il prezzo da pagare
NEWS 14 Maggio 2020    di Lorenzo Bertocchi

Il caso Silvia-Aisha, le ombre delle Ong e il prezzo da pagare

La storia di Silvia-Aisha probabilmente nasce per un sogno, quello di andare in Africa a far del bene. Quello di tanti giovani di “belle” speranze che partono un po’ così, senza troppo discernimento forse, con qualche illusione di troppo. Di certo partono spesso mettendosi in mano a Ong che non li preparano, né li mettono veramente in sicurezza.

«Certo non sempre è così», dice al Timone Gian Micalessin, «ma nel caso di Africa Milele, la Ong che ha portato in un villaggio africano isolato Silvia Romano, siamo davanti a un caso documentato in cui emergono con chiarezza le mancanze di questa organizzazione».

Partita per il Kenya a 23 anni, Silvia, dice ancora Micalessin, «è stata mandata, giovane e inesperta, in un villaggio senza stazione di polizia e senza un qualcuno preposto alla sicurezza. Due Masai, che peraltro non erano presenti quando lei è stata rapita, non sono comunque un’unità di sicurezza o comunque non sono in grado di garantirla effettivamente».

Le Ong che improvvisano così non sono poche, anche se «esiste un testo normativo che le regolamenta e indica la necessità di fornire garanzie in termini di sicurezza per i proprio dipendenti in zone a rischio. Africa Milele dovrà spiegare cosa non ha funzionato nel caso di Silvia, ma il discorso dovrebbe essere allargato anche ad altre Ong e onlus che mandano persone in giro per il mondo senza serie garanzie».

Un concetto che ha richiamato anche l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso intervenendo nell’ultima puntata del programma Quarta Repubblica. «I cooperanti italiani», ha detto, «devono andare con organizzazioni serie e strutturate, che mai manderebbero ragazzi allo sbaraglio. Facciamo un’analisi seria su quelle organizzazioni che mandano questi ragazzi in situazioni a rischio».

«È così», riprende Micalessin, «perché poi non si tratta solo della sicurezza del singolo individuo, ma si ripercuoto sugli interessi di tutta la nazione come nel caso di Silvia Romano. Ci sono, infatti, una serie di ricadute che investono diversi interessi nazionali».

Ma se le leggi per la regolamentazione delle Ong ci sono, probabilmente «manca qualcuno che su queste leggi imponga controlli seri».

I ragazzi che partono armati di “bei” sogni si ritrovano «utilizzati, magari come manodopera a basso prezzo, per fare delle operazioni che poi rischiano di avere un costo enorme. C’è una sproporzione gigantesca tra il bene che può venire fatto e il male che questo può causare, ciò è particolarmente evidente nel caso di Silvia Romano. Per aiutare i bambini di un piccolo villaggio ci troviamo a rischiare di garantire ai terroristi l’esplosivo e le armi per commettere stragi in cui soffriranno altri bambini, altri uomini e altre donne magari in un altro luogo dell’Africa stessa».

La retorica di questi giorni dovrebbe fare i conti con questo abnorme costo. I “bei” sogni dei giovani che partono per far del bene in Africa assomigliano spesso a scatole vuote, riempite da apprendisti filantropi. Anche il prezzo di questo vuoto enorme, educativo e culturale, si paga.


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