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Diario da Kabul – I nodi intra-talebani da sciogliere
NEWS 14 Settembre 2021    di Sebastiano Caputo

Diario da Kabul – I nodi intra-talebani da sciogliere

“Scendete dalla macchina!”. È un uomo a gridarmi addosso in lingua dari. Anche lui porta i capelli lunghi e ha gli occhi scontornati dalla matita nera, questa volta però tiene a tracolla un kalashnikov. “I tuoi documenti, chi sei?”, continua. Gli mostro il mio passaporto, e la lettera che certifica la mia presenza qui, come giornalista. Mi è stata data dal Press Office dell’Emirato dell’Afghanistan, autorizzata in persona dal portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid. È lui il frontman della comunicazione del Paese, e lo fa quotidianamente via Twitter e convocando conferenze stampa aperte ai media locali e occidentali.

Un uomo evidentemente carismatico, inizialmente aveva solo un’identità digitale, sui social, non avendo mai mostrato il suo volto al pubblico. La prima volta che appare in mondovisione è nel 2017, probabilmente il momento in cui gli “studenti coranici” avevano deciso di uscire allo scoperto, con una road map più o meno istituzionale da perseguire in vista della riconquista del Paese che avevano già governato dal 1996 al 2001 ai piedi del Mullah Omar, in nome di Dio. “Per noi non vale nulla questa lettera, comportati bene, e occhi aperti”. Il suo sguardo è perentorio, le pupille marroni scure, con qualche riflesso giallo, non lasciano dubbi. Una frase che sembra una minaccia. L’autista entra in macchina e riaccende il motore, pochi secondi dopo, superato il posto di blocco in pieno centro a Kabul, il fixer svela quanto è accaduto: “È uno della rete Haqqani”.

I primi a entrare in Kabul

La rete Haqqani appunto, quell’organizzazione para-militare e confessionale fondata nel 1970 e appoggiata negli Settanta dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica, poi rivoltatasi contro gli statunitensi qualche decennio dopo per via dell’invasione nel 2001. Erano proprio loro i mujahidin soprannominati da Ronald Reagan “freedom fighters”. Ma Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin Haqqani, il fondatore della rete, oggi numero 2 nella gerarchia talebana e attuale ministro degli Interni con una taglia dell’FBI sulla testa di 5 milioni di dollari. È lui il leader con cui Hibatullah Akhundzada e il suo prescelto, il Mullah Baradar, attuale vice ministro, deve fare i conti. C’è una rivalità storica che risale all’uscita nel 2007 da parte degli Haqqani dalla Shura di Quetta, salvo poi rientrarci nel 2015, e una competizione ancora viva che contrappone il pragmatismo della Guida Suprema all’intransigenza del capo della rete, considerata dagli Stati Uniti una delle principali organizzazioni terroristiche nonché costola di Al Qaeda. Durante i colloqui di Doha, Sirajuddin si era inizialmente opposto a qualsiasi forma di dialogo con gli Stati Uniti, poi, pur continuando a sabotarli con attacchi mirati, ha scelto di strappare un biglietto di ingresso al tavolo di pace per negoziare la liberazione di alcuni prigionieri tra cui quella di Anas Haqqani (accordata dall’amministrazione Trump). Anche lui, possiede un profilo Twitter, e qui in Afghanistan il video che lo vede camminare da uomo libero nella prigione americana di Bagram, dove è stato rinchiuso per anni, in isolamento, ha fatto milioni di visualizzazioni. Sirajuddin, da afghano, membro di un clan legato dal sangue, ha mantenuto la parola datagli e ora Anas è tornato al suo fianco, eminenza grigia del Ministro degli Interni. Sono loro, gli Haqqani, ad aver offerto copertura ad Al Qaeda e ad Osama Bin Laden in Nangharar, sono loro oggi a essere entrati per primi a Kabul, prima delle fazioni talebane legate al Mullah Baradar, e ora nel governo provvisorio annunciato, hanno conquistato probabilmente uno dei centri nevralgici del potere. Tramite il Ministero degli Interni, amministrano gli apparati di sicurezza del Paese e i servizi segreti in fase di ristrutturazione, addestrano la brigata Badri 313, le forze speciali talebane, equipaggiate di tutto punto, e vengono mobilitate sulle prime linee, come nel Panjshir, e infine controllano gli snodi strategici di Kabul, compreso l’aeroporto internazionale, tramite una geometrica e chirurgica disseminazione di checkpoint.

Un puzzle da ricomporre

E se è vero che esiste ad oggi un “un Taliban Consensus” al livello internazionale è altrettanto vero che questi hanno la necessità di trovare un accordo intra-talebano che non sia solo di facciata come ha rivelato la creazione di un “governo provvisorio” con colpevole ritardo e in pieno conflitto nel Panjshir. Quel ritardo infatti è una conseguenza delle divisioni interne tra la cosiddetta fazione di Kandahar – i pragmatici, coloro che hanno negoziato a Doha – e la rete Haqqani, di cui abbiamo scritto sopra. Non bastano i nuovi manifesti appesi nelle strade che ritraggono il fondatore Jalalluddin e il Mullah Omar, entrambi defunti, e padri “costituenti” del ritorno dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, a mascherare la corsa per la supremazia. Anche perché fuori dai confini nazionali, i player internazionali da mettere d’accordo sono tanti, troppi. Il governo provvisorio è ampiamente sostenuto da Qatar, Turchia e Pakistan, e tutti e tre i Paesi hanno influito pesantemente nelle nomine. Mentre la Russia e l’Iran sono rimaste scontente dell’attuale. Ma entrambi i Paesi hanno ancora delle armi di pressione da giocare qualora non dovessero ricevere garanzie. I primi, egemoni in Tajikistan, la principale retrovia strategica dei combattenti del Panshir, possono riattivare la guerriglia al momento opportuno; i secondi invece starebbero già traferendo la Brigata Fatimyoun, la milizia di afghani sciiti e di etnia hazara composta da circa 15mila, dalla Siria all’Iran. E poi le cellule dello Stato Islamico del Khorasan sono già attive, anche se per ora rimangono tra le montagne, in attesa di capire l’evoluzione della situazione e soprattutto il metodo per finanziarsi. L’Afghanistan, ha urgenza nel ricostruire un governo di riconciliazione e di inclusione etnica nel medio e lungo periodo. Non solo per garantire la sicurezza ai cittadini, ma soprattutto per impedire che il Paese scivoli progressivamente nella guerra civile. Perché è nella guerra civile che prosperano movimenti come l’Isis. Il caso siriano ne è l’esempio più eclatante (02 – segue).


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