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Dopo l’uragano del comunismo khmer, in Cambogia rinasce la fede cattolica
NEWS 16 Settembre 2015    

Dopo l’uragano del comunismo khmer, in Cambogia rinasce la fede cattolica

di Gerolamo Fazzini

 

 

Non cercate Kdol Leu sulle mappe della Cambogia: il turismo di massa va altrove, al Palazzo reale di Phnom Penh oppure ad Angkor Wat, dove si innalzano magnifici templi, inghiottiti dalla foresta. Kdol Leu è un piccolo villaggio che costeggia un nastro di asfalto che corre parallelo al Mekong, il fiume che dal Tibet scende fino alla Cambogia. Qui la gente vive coltivando il riso o facendo piccoli lavori artigianali. Pur modesta (250 fedeli in tutto), questa comunità cristiana è, però, emblematica della sofferta storia della Chiesa cattolica in Cambogia, piccolo gregge in un oceano buddhista.

Qui la fiammella della fede si è riaccesa grazie a una donna, Yei Niang, dopo gli anni della persecuzione (1975-1979), durante i quali i Khmer rossi hanno ucciso quasi 2 milioni di persone (un quarto della popolazione) e polverizzato la presenza cattolica, passata da 65 mila fedeli a poche migliaia. All’epoca di Pol Pot, Yei Niang era una giovane mamma con tre figli. Un giorno il marito viene prelevato dai Khmer rossi e non farà più ritorno. Niang rimane vedova, ma una grande fede la sostiene. In quegli anni la chiesa era stata distrutta dai bombardamenti. Tuttavia lei continua a pregare nel silenzio. Dovranno passare vent’anni prima che sia possibile, finalmente, poter pregare di nuovo in pubblico. È allora che Niang decide di costruire una piccola cappella di bambù di fianco a casa sua, dandosi da fare per radunare i cristiani.

A presentarmi Yei Niang è il giovane parroco del villaggio, un missionario italiano da 6 anni in Cambogia: padre Luca Bolelli, bolognese di origine, classe 1975. A Kdol Leu padre Bolelli c’è arrivato quasi per caso nel 2009, per impratichirsi con lo studio della lingua, ma si è subito preso a cuore la comunità e la sua storia. Le case sono rimaste le stesse di allora, di legno, con esili pareti di foglie intrecciate, elevate su palafitte. Ma molto altro, spiega ancora padre Luca, è cambiato: «Nel 2009 c’erano solo televisioni in bianco e nero e nessuno aveva il cellulare, mentre oggi anche gli adolescenti hanno il loro smartphone». Le strutture ecclesiali sono ridotte all’osso, un piccolo asilo che ospita 40 bambini, la casa del sacerdote e una chiesetta in muratura: una costruzione semplice, ma che esprime tutta la vitalità della piccola comunità, letteralmente fiorita dal sangue dei martiri. Padre Luca mi mostra la cappella funeraria accanto alla chiesa di Kdol Leu, realizzata in onore di un missionario francese, padre Pierre Rapin, vittima dei Khmer rossi. «Ha lavorato qui solo tre anni, ma la gente l’ha amato intensamente». Il missionario francese, fra l’altro, aveva iniziato un allevamento di diverse migliaia di galline ed è passato alla storia con un soprannome, «Padre uova di gallina», che evoca proprio questo suo tentativo.

Padre Rapin è uno dei 35 martiri per i quali la Chiesa cambogiana ha avviato, nel maggio scorso, la fase diocesana del processo di beatificazione. La sua storia ricorda decisamente quella del buon pastore che dà la vita per le sue pecore. Quando, infatti, nel pieno della persecuzione, tutti scapparono, padre Rapin mandò un biglietto al confratello François Ponchaud, che stava organizzando la fuga: «I cristiani mi hanno chiesto di rimanere, sia fatta la volontà di Dio». Pagherà con la vita il suo gesto. Ma la gente, anche a distanza di decenni, non l’ha dimenticato. Chiedo a padre Luca come si annuncia il Vangelo in un contesto quasi totalmente buddhista: «Non è facile», spiega, «perché le categorie sono molto diverse. Una volta una donna mi ha chiesto perché Gesù fosse stato crocefisso. In momenti come quelli ti trovi completamente spiazzato: hai fatto anni di teologia, sei missionario, eppure… Per un buddhista, se Gesù è morto in quel modo, è perché aveva colpe da scontare. Occorre, quindi, rovesciare quell’idea, spiegando che Gesù non aveva peccati, ma ha preso i nostri su di sé, decidendo di umiliarsi e “perdere la faccia” (il massimo della vergogna per un orientale, nda) esclusivamente per amore, per la nostra salvezza».

Se dal punto di vista culturale la croce rimane un mistero difficilmente spiegabile, la carità annunciata e vissuta si conferma invece, sottolinea il missionario, un linguaggio universalmente comprensibile: «Nel 2010 a Pasqua ricevettero il Battesimo una ventina di giovani della mia parrocchia. Chiesi a uno di loro cosa l’avesse spinto a voler diventare cristiano. La risposta? “Il clima accogliente che ho respirato tra i cristiani e le tante attività di aiuto e di educazione per i più poveri mi hanno fatto capire che la Chiesa ama davvero tutti, come dice il Vangelo”». Girando il villaggio, visitiamo le famiglie, che vivono per lo più in una situazione di povertà dignitosa. Fino a pochi anni fa, la strada di accesso al villaggio era ancora sterrata, e durante le piogge diventava impraticabile. «Quando pioveva molto, non riuscivo a camminare: la terra rossa, argillosa, diventava scivolosissima. Una volta, dopo tre cadute consecutive, mi hanno affidato a due bimbi che mi tenevano per le mani, aiutandomi a camminare».

La vita del prete a queste latitudini assomiglia all’immagine del missionario sorretto dal popolo: in Cambogia, infatti, il ruolo dei laici è insostituibile. «Ho imparato a valorizzare il Consiglio pastorale. All’inizio mi pareva che il mio predecessore gli desse troppa rilevanza, poi ho capito che aveva ragione. Talvolta c’è qualche tensione, ma lavorare insieme rimane una strada obbligata, anche perché un giorno io andrò via, mentre i miei parrocchiani rimarranno». Padre Luca è uno che guarda avanti. Per questo ha deciso di scommettere sui giovani: nella vicina cittadina di Stung Trong ha realizzato la Casa per studenti, che accoglie una trentina di giovani che, altrimenti, non si potrebbero permettere di frequentare la scuola. Quando la visitiamo l’accoglienza dei ragazzi è a dir poco festosa. Padre Luca mi presenta Srey Phia: tempo fa voleva lasciare la scuola perché i genitori non l’appoggiavano, i risultati non erano granché e la tentazione di andarsene in Thailandia per cercare lavoro molto forte.

Poi si è convinta a tener duro. Conclude padre Luca: «Srey Phia viene da una famiglia non cristiana, lo zio è il monaco-capo di una pagoda qui vicina. Eppure lei ha sentito fin da piccola un’attrazione per Gesù. Un giorno mi ha detto: “Scoprire che c’è un Padre nei Cieli di cui sono figlia dà luce a tutto”. Srey Phia è ancora in ricerca, sta cercando di capire. Ma s’è messa in cammino, e questo è l’importante».