Negli stessi giorni in cui, in Italia, si tengono degli Open day accompagnati, talvolta, da musica e spensieratezza – come fosse tutto una passeggiata –, c’è chi si chiede se poi sia davvero il caso di procedere con la vaccinazione dei bambini e più in generale dei minori. Ma, attenzione, non stiamo parlando di qualche invasato «no vax», bensì, secondo quanto riportava martedì il Guardian, di alcuni accademici i quali hanno delle perplessità fondate e non polemiche né sulla spinta di qualche onda emotiva, appunto, di somministrare vaccini ai giovanissimi.
Anche qui, meglio precisare che non parliamo di accademici un po’ bizzarri o dalle idee minoritarie, bensì dei componenti del JCVI – acronimo che sta per Joint Committee on Vaccination and Immunization -, un comitato consultivo di esperti indipendenti che fornisce dritte ai dipartimenti sanitari del Regno Unito. Pare infatti che i membri Joint Committee siano in procinto di lasciare, tra non molti giorni, un parere all’insegna della cautela sulla vaccinazione ai minori di 18 anni.
Più precisamente, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, «gli scienziati vogliono acquisire più dati dagli Stati Uniti e da altri Paesi prima di assumere una posizione ferma sul punto». Il JCVI, secondo fonti governative, «intende confrontare bene rischi e benefici prima di dare il suo assenso alla vaccinazione ai bambini, e per questo richiede più dati». Va aggiunto che questi dubbi in Inghilterra – Paese che, insieme ad Israele, ha realizzato una mirabile campagna vaccinale, e quindi non è sospettabile, lo si ripete, di tendenze «no vax» – non sono emersi solo in questi giorni.
In effetti, quello che il professor Anthony Harnden dell’università di Oxford e vicepresidente del proprio del JCVI ha chiamato già settimane addietro un «dilemma etico», gli scienziati di Sua Maestà se lo pongono da tempo. Già a maggio, per dire, il Telegraph aveva dato parecchio risalto ad una lettera aperta all’Agenzia regolatoria nazionale sui medicinali (MHRA) sottoscritta da oltre 40 tra ricercatori, docenti universitari e medici il cui titolo era già, di per sé, molto emblematico: «Sicurezza e preoccupazioni riguardo le vaccinazioni Covid nei bambini».
In quella lettera, per invitare alla cautela le autorità britanniche, venivano richiamati alcuni precedenti assai significativi. Per esempio, quello del vaccino per l’influenza suina Pandemrix, lanciato dopo la pandemia del 2010 e che aveva provocato oltre 1.000 casi di narcolessia, in bambini e adolescenti, prima d’essere ritirato; allo stesso modo anche Dengvaxia, un vaccino contro la dengue, era stato distribuito ai giovanissimi prima dei risultati completi della sperimentazione, e 19 bambini erano poi morti per un possibile potenziamento anticorpo-dipendente (ADE) prima che il preparato fosse anch’esso ritirato.
Sulla base di simili e tristi precedenti, e considerando oltretutto «che nessun bambino sano sotto i 15 anni è morto di Covid nel Regno Unito», quegli scienziati avevano fatto un appello alla prudenza che, col passare delle settimane, pare sempre più condiviso e che sembra da prendere sul serio, anche perché in Inghilterra, patria della fecondazione assistita, della pecora Dolly e della maternità surrogata altruistica, legale dal 1985, non si può dire che gli scienziati si pongano dilemmi etici su ogni cosa.
In particolare, oltre a chiedersi se sia il caso di procedere con la vaccinazione dei giovanissimi in assenza di dati certi sugli effetti collaterali per fasce di età così basse, si pone un altro dubbio: perché non assicurare le dosi già disposizione, intanto, ai tanti vulnerabili che ancora ne sono privi, in Inghilterra e non solo, prima di concentrarsi sui piccoli? In effetti, qui il «dilemma etico» c’è tutto.
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