Il Cairo. Gaza è blindata. Entrarci è impossibile e quei pochi reporter che in questi mesi sono riusciti a raccontare la guerra se ne sono ormai andati oppure sono morti. Un dramma nella tragedia perché, come insegna Tiziano Terzani, «i fatti non registrati non esistono». Se nessuno è sul campo a raccontare i bombardamenti, la fame, la malattia, la disperazione, la rabbia e la morte, allora ecco che queste cose non esistono. Restano nella realtà, ovviamente. Ma nessuno, se non i diretti interessati, le vedono. Gaza si trova in questo buco nero.
Certo, ci sono i social. Ma spesso si tratta di visioni parziali, altre volte invece di vere e proprie fake news nelle quali è facile cadere. Ci sono poi le fonti locali, ma anche loro rappresentano, volenti o nolenti, un filtro. Come fare allora a raccontare questo conflitto? Bisogna avvicinarsi ad esso il più possibile e incontrare chi, quella guerra, se l’è messa momentaneamente alle spalle. Come le famiglie dei bambini, malati o feriti, presi dalle Forze armate italiane a Il Cairo per essere curati in Italia. L’ospedale Umberto I ha oltre cent’anni ma rappresenta ancora una delle eccellenze del Paese. Una donna urla. È disperata. Ha appena perso il marito ed è sprofondata in un dolore che la accompagnerà a lungo. Suor Pina, la decana dell’ospedale, si muove con sicurezza.
Ogni passo è una confidenza. Uno strazio. Davanti a quei corpicini e a quegli occhi persi si dà da fare. «Sheima non ha mai aperto bocca, non ho mai sentito la sua voce. Si nasconde sempre e piange. Ha perso un piede a causa di un bombardamento israeliano e, mentre la medicavamo, usciva dalla sua ferita usciva del pus e ci siamo messi a piangere tutti, vedendola così e trovandoci impotenti di fronte a questa sofferenza». Sheima è il caso più difficile, almeno dal punto di vista psicologico. Il trauma è palese. Non riesce ad alzare lo sguardo e sta rannicchiata tra le braccia di sua madre.
Sarah, invece, ha il bacino rotto ed è zoppa. Non appena ci vede ci accoglie con un sorriso, ma i suoi occhi lucidi. Anche lei è piegata da ciò che ha visto e, soprattutto, ha vissuto. Lei e le sue sorelle sono accompagnate da una giovane zia (sua mamma infatti è rimasta paralizzata in un bombardamento mentre suo padre risulta ancora disperso) che, dice, è pronta a tornare a Gaza una volta che le nipoti verranno curate. «È la nostra terra, tu cosa faresti?», ci chiede. Difficile rispondere. Certo, è il loro Paese quello. Ma perché tornare a rischiare la vita tra le bombe, in città che non esistono più?
Abdel ha solo cinque anni ed è un tipo vivace, nonostante la grande garza sporca di pus sulla testa che copre un cranio fatto a pezzi. Si trovava in casa insieme alla sua famiglia quando un raid israeliano ha distrutto tutto, uccidendo i suoi genitori e suo fratello maggiore. Mentre parliamo, sua zia estrae il cellulare per mostrarci il corpicino sporco di sangue del fratello di Abdel, mentre lui sparisce. «Ha visto i soldati e pensava fossero quelli israeliani venuti per portarlo via», ci racconta poco dopo l’interprete. La piccola Rania, invece, sogna un posto dove non si combatte perché, dice, ha già visto troppa gente morire. E poi Karim, il più piccolo del gruppo, dal sorriso vispo: ha solo un anno e mezzo ma il suo corpo è già una piaga fatta di ustioni e cicatrici. Corre e scappa, per poi inciampare nella kefiah che gli è stata messa in testa.
Nicola Minasi, a capo dell’Unità di crisi della Farnesina che è a capo di questa missione, racconta: «Durante questa guerra, l’ospedale Umberto I de Il Cairo è diventato il punto di raccolta degli italiani usciti da Gaza e anche dei palestinesi che, con le loro famiglie, stiamo prendendo per tornare in Italia. Contiamo molto sull’aiuto dell’ospedale e siamo contenti di poter realizzare il piano del governo italiano – congiunto tra ministero degli Esteri, Difesa, Sanità, intelligence – per portare in Italia questi bambini».
Lo sforzo non è stato facile. Il nostro Paese ha infatti dovuto giocare di sponda sia sul fronte palestinese sia su quello israeliano. «È un’operazione che nasce fin dall’inizio con un disegno interforze e interagenzie», ci racconta il generale Francesco Paolo Figliuolo, comandante del Covi, non appena atterriamo insieme ai bambini all’aeroporto di Ciampino. «È uno sforzo doveroso, fatto coordinandoci con altre nazioni: su nave Vulcano, per esempio, era a bordo un team medico del Qatar». Undici vite sono state portate in salvo. Frammenti di storie di una storia più grande. Che si sono messi alle spalle. Ma che portano ancora sulle ossa e sulla pelle.
(Foto di Matteo Carnieletto)
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