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Educazione a distanza? Sì, ma alle condizioni dettate dal cardinal Newman
NEWS 10 Luglio 2018    di Giulia Tanel

Educazione a distanza? Sì, ma alle condizioni dettate dal cardinal Newman

C’è un aspetto del beato cardinale John Henry Newman (1801-1890) che forse non è noto a tutti: la sua competenza in campo educativo, che fa parlare di lui come del «più famoso educatore cattolico del periodo moderno». Tanto che, durante la celebrazione della Santa Messa in occasione della sua beatificazione nel 2010, papa Benedetto XVI ebbe a dire: «Vorrei rendere un particolare tributo alla sua visione dell’istruzione, che ha fatto tanto per plasmare l’ethos che è la forza trainante delle scuole cattoliche e dei college di oggi. Opponendosi fermamente a qualsiasi approccio riduttivo o utilitaristico, ha cercato di creare un ambiente educativo in cui la formazione intellettuale, la disciplina morale e l’impegno religioso si sarebbero uniti». Un obiettivo alto, dunque, quello cui aspirava Newman nel guardare ai giovani educandi, ma nel contempo possibile e affatto utopico.

Partendo da queste premesse, un articolo apparso su Crux a firma di Christopher O. Blum si interroga sull’educazione a distanza. E lo fa senza partire da una posizione preconcetta, bensì riconoscendo questa via come possibile se si concretizza in una linea di fedeltà, pur con la dovuta creatività, alla tradizione educativa di matrice cattolica.

Nel fare questo, vengono messi in luce diversi aspetti che il cardinal Newman riteneva imprescindibili in campo educativo, rispetto ai quali è quindi importante prestare particolare attenzione nel momento in cui si provano a percorrere vie nuove.

Innanzitutto, una prima critica va fatta sugli strumenti propri dell’educazione a distanza: Power Point, video, articoli… tolgono agli studenti il contatto con i libri, cui invece va riservato un posto di primo piano.

Oltre a questo, un altro aspetto importante è quello relazionale. In primo luogo, il beato mette in guardia gli studenti dalla tentazione, dalla quale lui stesso era stato attratto, a essere autodidatti: «Essere autodidatti – sosteneva – è una disgrazia… perché nella maggior parte dei casi, essere autodidatti significa essere malamente radicati, essere sciatti ed essere assurdamente pieni di sé». Di contro Newman evidenzia, scrivendo al suo maestro, la centralità di incontrare guide che, seppur nella differenza di visioni, favoriscano lo sviluppo del pensiero e dell’autostima: «[…] a nessuno devo tanto quanto a te. […] mi hai insegnato a pensare correttamente e (strano ufficio per un istruttore) a fare affidamento su me stesso».

Anche in relazione a questo aspetto, Newman spende parole importanti per rimarcare l’importanza della prossimità fisica nel processo educativo, e questo sotto due differenti profili. Da un lato, la constatazione del beneficio che gli studenti possono trarre nel relazionarsi in maniera concreta con i propri docenti e tra pari in un contesto – come il cardinale auspicava essere quello delle università – segnato positivamente «per la comunicazione e la circolazione del pensiero, attraverso rapporti personali» e concepito anche quale «luogo di formazione morale». Dall’altra, l’importanza che questa prossimità fisica fosse propria anche del corpo docente, per poter conversare e discutere, nell’ottica di creare «un’atmosfera di pensiero pura e chiara, che anche lo studente respira… [e] si forma un’abitudine della mente che dura attraverso la vita».

Questo si mostra conforme con il vero obiettivo che Newman si proponeva parlando di educazione, così come esplicitato nel suo libro Idea di un’università (1852): creare nei discepoli quella che Edgar Morin poi definirà una “testa ben fatta” piuttosto che una “testa ben piena”, ossia una forma mentis, una «abitudine filosofica della mente», non tanto carica di contenuti e da valutare in base ai risultati, quanto piuttosto capace di «ascendere… dobbiamo generalizzare, dobbiamo ridurre al metodo, dobbiamo avere una comprensione dei principi, e raggruppare e modellare le nostre acquisizioni per mezzo di loro». Un’educazione, questa di matrice cattolica, che merita di essere diffusa su larga scala – nonostante il cardinale fosse un sostenitore dell’università come un luogo riservato alle élite – perché incarna la missionarietà della Chiesa nel mondo e concorre alla trasmissione della fede e al benessere spirituale del popolo di Dio.

Aspetto sul quale, rilevava ancora Benedetto XVI, l’educazione odierna è molto carente, data la «crescente difficoltà incontrata nel trasmettere i valori fondamentali della vita e il corretto comportamento alle nuove generazioni». Tanto che, ricollegandoci ai giorni nostri, anche il neo ministro per l’istruzione Marco Bussetti, intervistato ieri sulla Verità, a una domanda rispetto ai recenti e ripetuti casi di insegnanti picchiati dagli studenti, ha affermato che sarà necessario mettere in atto misure di prevenzione, dando più spazio all’educazione civica. Si tratta di una risposta forse parziale, certo, ma che rimette al centro il fatto che l’educazione è molto più di una mera trasmissione di conoscenze, bensì si incarna – come vuole l’etimologia stessa della parola – nella capacità di “tirare fuori” dalle persone il meglio che è in loro… e questo lo si può fare in maniera piena solo se si ha una visione integrale dell’uomo, come ci insegna il cristianesimo.


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