Anche Dacia Maraini sul Corsera ha commentato, come tanti, l’intervista di Michela Murgia a Aldo Cazzullo dove ha annunciato di essere malata e di avere «mesi di vita». Di fronte alla situazione della Murgia la posizione più ragionevole ci sembra essere quella espressa dal beato giudice Rosario Livatino di fronte a un uomo colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino intimò perentorio: «Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!».
Ma di fronte al corsivo della Maraini qualche parola ci sentiamo di pronunciarla. Il suo nichilismo in pagina è cotto e stracotto, persino un po’ bollito. Dopo aver definito come «rivoluzionarie le parole di Michela» ecco che la signora Dacia scrive frasi molto poco rivoluzionarie, almeno in quanto già scritte e riscritte dai tanti nipotini di Nietzsche: «creare come centro e punto di riferimento della rivoluzione cristiana un uomo morente in croce non ha fatto bene alla nostra cultura», scrive Maraini, invece, la «novità delle parole della Murgia» segnerebbero un vitalistico riscatto della fine.
Nietzsche riteneva che la dottrina della croce, che secondo lui predicava solo l’accettazione passiva della sofferenza e la rinuncia alla vita terrena in favore di una ricompensa nell’aldilà, fosse un’ideologia che ostacolava la realizzazione del potenziale umano e l’affermazione della vita sulla terra. Quindi la Murgia, secondo Maraini, da vera icona del «distacco razionale» dal dolore, incarna anche questa rivincita del potenziale umano e dell’affermazione della vita sulla terra. Ecco compiuto il passaggio da Nietzche alla Murgia, magari passando per Voltaire e Beccaria, per citare altri nomi esaltati nel corsivo della Maraini.
Potremmo rispondere che la Croce è un simbolo dell’amore e della salvezza. Potremmo dire che la croce rappresenta il sacrificio che Gesù Cristo ha fatto per redimere l’umanità dal peccato e portarla alla salvezza. Potremmo considerare che la croce, quindi, è come un segno di amore e di misericordia, piuttosto che di debolezza o sottomissione. Potremmo valutare che il cristianesimo non esorta alla passività o alla rassegnazione, ma piuttosto alla accettazione responsabile della sofferenza come parte integrante della vita umana. Persino che la sofferenza, se accettata con fede e speranza, può diventare un mezzo per la crescita spirituale e per l’unione con Cristo.
Potremmo dire tutto questo, ma semplicemente vogliamo dire che se c’è un elemento “culturale” che offre veramente un senso all’esistenza è il Crocifisso che indica come il dolore, ineluttabile presenza della vita umana, non è un bieco scherzo del caso, ma trova un significato persino salvifico. C’è una beatitudine anche in ciò che altrimenti resta senza senso. C’è l’unica possibile armonia di opposti, vita e morte, dolore e gioia, altrimenti inconciliabili. Se no restano solo gli illuminati, ma a qualunque povero Cristo che semplicemente cerca di non sentirsi un nulla cosmico di fronte a un destino cieco, cioè si dimostra più intelligente degli illuminati, almeno nel cercare davvero una risposta fondamentale, il Crocifisso resta un ottimo centro e unico vero “punto di riferimento”.
La vita vissuta guardando al Crocifisso diventa una vita da donare, vissuta per amore e nella speranza che anche il non senso trovi davvero un senso. Se vi sembra un ostacolo al potenziale umano, prendetevi pure Superman, noi teniamo il Crocifisso.
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