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Giovanni Pellielo, argento nel tiro al piattello alle Olimpiadi di Rio: la vera medaglia è Cristo
NEWS 4 Ottobre 2016    

Giovanni Pellielo, argento nel tiro al piattello alle Olimpiadi di Rio: la vera medaglia è Cristo

di Elisa Bertoli

 

Per incontrare Giovanni Pellielo, quattro medaglie in quattro Olimpiadi nel tiro a volo, occorre addentrarsi nei campi attorno a Vercelli. Lui che ha ricevuto proposte dai luoghi più lussuosi del mondo, vuole continuare a vivere «nella semplicità delle risaie. Se sono nato qui», spiega con grande serietà “Johnny”, nato nella cittadina piemontese quarantasei anni fa, «un senso ce l’ha e, visto che non so qual è, non posso arrogarmi il diritto di andarmene. Credo che il mio successo sia estremamente legato alle mie origini e non voglio per nulla al mondo abbandonarle».

Come mai il suo centro sportivo si chiama “Tiro a volo San Giovanni”?

«San Giovanni, colui che urlava nel deserto, è il mio santo. Anch’io un po’ mi sento un urlatore nel deserto. A volte, quando bisogna portare annunci forti, c’è bisogno di tanto deserto. E il deserto si abbina molto bene al mio sport, in cui il silenzio ha un ruolo fondamentale: metti i tappi elettronici, le cuffie, e inizi a sentire il respiro, il battito cardiaco, il sangue che scorre. Inizi a parlarti. Poi vai in pedana e spari. È un continuo ascoltarsi, in un silenzio che non sopporta nemmeno il parlare».

Cos’è il centro San Giovanni?

«Non è solo un luogo in cui si pratica lo sport, ma l’espressione di valori all’interno dei quali c’è anche lo sport. Lo si capisce fin dall’ingresso, dalla statua della Madonna di Lourdes. Perché il centro San Giovanni è la Lourdes del tiro a volo (ride). Arrivano tante persone e, dialogando con loro, mi rendo conto che l’ultimo dei loro problemi è rompere il piattello. E poi qui vengono tiratori musulmani, induisti dall’India e da tutte le parti del mondo. In queste occasioni d’incontro mi sono reso conto che si è creata una sinergia, potrei dire una condivisione, che è qualcosa di raro in un mondo che vuole essere globale ma ha paura dell’integrazione».

La sua “missione” ha avuto inizio nel 2000, grazie a un’udienza con papa Giovanni Paolo II…

«In quell’occasione Wojtyla esortò a non aver paura di essere testimoni della Verità. Poi, rivolgendosi solo a me, mi ripeté due volte: “Vai avanti!”. La mia fede era già abbastanza radicata all’epoca, ma da quel momento è cambiato il coraggio di viverla, soprattutto in un mondo così particolare come quello sportivo. Quel “Vai avanti!” me lo sono ritrovato sedici anni dopo, all’Olimpiade di Rio. Me lo sono portato dentro in ogni piattello che tiravo. Senza quella frase non avrei avuto quella forza, e non l’avrei ora nel guardare alla prossima Olimpiade. Per me, poi, è anche un invito ad affrontare le difficoltà della vita. Quando, nel 2013, è mancato mio padre, ho capito quante volte dicevo agli altri “Ti capisco” mentre in realtà non capivo nulla».

È stato a seguito di quell’incontro che si è fatto costruire una cappella in casa?

«Sì, perché per gente immersa nel mondo come me è importante avere la propria catacomba: è un modo per avere più forza. E poi i segni sono importanti».

Ho saputo che è affezionato ai testi del papa emerito Ratzinger…

«Vero. Di sera davanti al computer, magari già nel letto, mi leggo qualche sua pagina. Se durante la giornata ho delle distrazioni che mi portano lontano dalla Verità, queste letture mi riconducono a essa. È una cosa che faccio con grande semplicità e, come nel Vangelo, scopro sempre qualcosa di nuovo».

Lo scorso anno ha incontrato invece papa Francesco, in occasione della Messa degli sportivi a San Pietro…

«E mi ha parlato in dialetto piemontese. Mi ha detto: “Me anduma? Forsa, forsa!”. Mi ha fatto tornare in mente l’incontro di quindici anni prima con Giovanni Paolo II. Entrambi sono personaggi unici e straordinari».

Alcuni anni fa ha fondato il gruppo di solidarietà “Team Shooting J. P.”. Come stemma ha scelto la croce e la celebre frase “In hoc signo vinces”. Cosa significa per lei?

«Solo in quel segno, quello della croce, si può vincere nella vita, intendendo la vittoria come partecipazione ai frutti e ai benefici della presenza del Cristo, quindi la vita eterna. È quella la medaglia d’oro olimpica».