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«Guai a me se non predicassi il Vangelo»
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1 Gennaio 2022

«Guai a me se non predicassi il Vangelo»

Ho conosciuto don Luigi Negri nel 2007, quasi per caso, alla presentazione di un suo libro che si intitolava “Per un umanesimo del terzo millennio” (ed. Ares). All’epoca era vescovo di San Marino-Montefeltro, lo avevo visto altre volte, avevo seguito tanti suoi interventi, ma nel suo periodo di missione sul Titano ebbi l’occasione di imparare a conoscerlo. Ogni tanto passavo a trovarlo con qualche amico, consapevoli di costituire un cenacolo informale in cui si parlava di tutto, ma soprattutto si parlava dell’unica cosa che lo interessava davvero: l’irrompere di Cristo nella vita del mondo e degli uomini. Monsignor Negri, che è morto ieri all’età di 80 anni, non lasciava indifferenti, ti squadrava e non te le mandava a dire. Un leone della fede, un uomo che argomentava la ragione della speranza che era in lui in modo fondato e diretto. Per questo risultava spesso scomodo. È stato un amico del Timone fin dalle origini della rivista, era presente anche alla festa dei 20 anni dalla fondazione del giornale, nel novembre 2019, anche se le sue forze cominciavano a declinare. A Dio, caro monsignor Negri. Di seguito un suo articolo scritto sul Timone n. 46, settembre 2005. (Lorenzo Bertocchi)

di Luigi Negri

La vita sociale, i rapporti fra gli uomini, le nazioni, i popoli, sono stati negli ultimi secoli luogo di un impegno straordinario e terribile. Il luogo della grande illusione.

L’illusione che la vita sociale e la sua organizzazione fossero il problema e l’impegno definitivo dell’uomo e della storia.

Così, la creazione della società e dello Stato perfetti, pensati con rigore filosofico e scientifico e governati con sofisticazione tecnologica, sono stati proposti ed imposti agli uomini come la totalità dei valori umani e storici.

È stato questo il totalitarismo, la creazione di strutture statuali e sociali in cui l’uomo, dominato da un potere totalizzante, ha perduto la sua libertà, la sua dignità, i suoi diritti fondamentali, la sua responsabilità etica e sociale.

La vita sociale è divenuta, secondo l’intuizione del grande letterato russo Vasilij Grossman (1905-1964), un “immenso campo di concentramento”.

E questa è stata la grande delusione della modernità. La Chiesa non ha potuto non giudicare questa illusione e questa delusione. I papi del XIX e XX secolo hanno scritto pagine straordinarie di “dottrina sociale”, perché l’uomo potesse superare criticamente quella illusione e, in qualche modo, liberarsi da quella tremenda delusione.

La Chiesa interviene nei problemi della vita sociale, perché essi riguardano l’uomo e il suo destino.

L’uomo non è definito dalla struttura e dai rapporti sociali; l’uomo è definito dal rapporto costitutivo che ha con Dio. L’uomo è figlio di Dio; le sue radici affondano strutturalmente nel mistero stesso dell’Essere. «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza».

Ma l’uomo, figlio di Dio, vive nella società, ne riceve tutte le sfide e tutte le provocazioni. È costretto a dimostrare, nella società, la verità della sua vita e del suo destino. È nella società che si vede se l’uomo vive nella verità o nella menzogna.

La Chiesa indica all’uomo i criteri di giudizio sulla vita personale e sociale. L’uomo nella società non deve accrescere il proprio potere o consolidare il proprio benessere “ad ogni costo”. L’uomo deve investire liberamente la vita della società con la sua cultura e la sua creatività sociale, in modo da favorire il bene di ogni persona, quindi, dell’intera società.

È questo il valore sociale supremo, quello che la dottrina sociale della Chiesa ha favorito con il termine “bene comune”.

La grande sfida che la Chiesa ed i cristiani ricevono all’inizio di questo terzo millennio è la sfida sull’uomo, sul suo destino, sulla sua libertà, sulla sua dignità. La fede offre all’uomo l’aiuto più consistente a recuperare il senso della sua identità e del suo compito.

La Chiesa serve la verità nell’uomo, serve la sua moralità e promuove con tenacia e con tenerezza la sua libertà. Come ha detto Benedetto XVI, «noi lavoriamo per l’uomo».

Ma il cristiano deve essere educato a compiere questo percorso dalla fede alla creatività sociale. Perché il cristiano, come tutti, è tentato dall’ideologia, dall’egoismo e dall’autoreferenzialità. Per questo la Chiesa da madre diventa maestra.

Per questo l’autorità ha non soltanto il diritto ma anche il dovere di parlare della vita sociale e della politica e di educare i cristiani, ed ogni uomo di buona volontà, a vivere per la verità, il bene, la bellezza e la giustizia che si ritrovano nel volto di Cristo crocifisso e risorto, “Redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia”. (Il Timone n. 46, settembre 2005)

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