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Il buon selvaggio
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29 Novembre 2017

Il buon selvaggio

di Rino Cammilleri
Dal Sessantotto in avanti non c’è stato film, anche a cartoni animati, che non ci abbia dipinto gli indiani d’America come bravissime persone che vivevano in serena armonia tra loro e con la natura fino all’arrivo, ahimé, dell’uomo bianco. L’elenco è senza fine, e va da film come Soldato blu (con Candice Bergen) e Un uomo chiamato cavallo (con Richard Harris), ai disneyani Pocahontas e Spirit, a fumetti politicamente corretti come Ken Parker e Tex. Anche i simpatizzanti della destra politica si esaltavano contro gli odiati yankees, e libri come Alce Nero parla (Rusconi) erano per loro dei cult. Nel nostro piccolo, a suo tempo, ricordammo che il vero Alce Nero (Black Elk) rinnegò il suo passato di sciamano e divenne catechista cattolico, e avanzammo i nostri dubbi sull’esistenza del «buon selvaggio».
Sempre a destra stavano, e ancora stanno, anche i laudatori degli antichi celti e del Giappone dei samurai. I primi (vedi Asterix) sarebbero stati corrotti dalla conquista romana, i secondi (vedi L’ultimo samurai con Tom Cruise) dall’irrompere dei soliti americani. Solo in tempi recenti gli antropologi hanno ammesso che i celti praticavano sacrifici umani e che i romani tolsero loro il vizio costringendoli a divenire civili. Su queste stesse pagine, parlando della rivolta dei samurai cristiani di Shimabara nel 1637, facemmo notare come il lunghissimo feudalesimo giapponese (cessato solo a metà Ottocento) fosse stato in realtà un tempo efferato, oppressivo e persecutore.
Nelle Americhe, incas e aztechi praticavano sacrifici umani di massa e (vedi il mio libro I mostri della Ragione, Ares) vivevano in un sistema totalitario e inutilmente sanguinario. Anche loro, sempre in guerra (che chiamavano «fiorita» perché veniva scatenata ad ogni primavera ed aveva l’unico scopo di procurarsi vittime da immolare sugli altari di una torma di divinità). Nel Nordamerica la vita delle tribù era da età della pietra, un incessante nomadismo da pura sopravvivenza in cui lo sfruttamento delle donne, l’infanticidio e l’abbandono dei vecchi e dei malati era la norma. L’agricoltura era sconosciuta e si viveva di carne di bisonte, costretti a seguire continuamente gli spostamenti delle mandrie. Una donna veniva comprata e venduta per un cavallo o un paio di pentole, e a trent’anni ne dimostrava sessanta a causa delle incessanti fatiche a cui doveva sottoporsi. La fame era la regola, e non di rado le mutilazioni dei nemici uccisi erano più che rituali.
Di tutto ciò, insomma, ci eravamo convinti solo riflettendo. Ma adesso abbiamo, a conferma, anche i dati. L’agenzia Corrispondenza romana, infatti, ci informa dell’uscita di un libro che, negli Usa, sta suscitando vive discussioni: Before the dawn. Recovering the lost history of our ancestors («Prima dell’alba. Recupero della storia perduta dei nostri antenati»), di Nicholas Wade, giornalista scientifico del New York Times. Utilizzando le più recenti acquisizioni dell’antropologia accademica, l’autore mostra come gli indiani non fossero «per natura» affatto pacifici, tolleranti, leali e generosi. Anzi, la loro esistenza era totalmente basata sulla violenza. Alcune “nazioni” chiamavano se stesse «gli uomini» (così, per esempio, i Lakota e gli Inuit), negando tale qualifica a tutte le altre. All’interno di esse, poi, la tortura, la vendetta, il furto, lo stupro erano all’ordine del giorno.
La guerra era incessante, feroce e sleale, e non distingueva tra guerrieri e civili, donne e bambini, vecchi e malati. Lo scopo era lo sterminio degli avversari, che venivano fatti prigionieri solo per i sacrifici o per il cannibalismo rituale (o per appropriarsi della loro «forza» al palo della tortura). Perfino nelle durissime condizioni ambientali dell’Alaska e della Groenlandia, dove la lotta per la sopravvivenza avrebbe dovuto prevalere sulla brama di dominio, la guerra era continua e spietata. Il libro riporta che l’87% delle comunità indigene combatteva più guerre all’anno e il 65% era sempre in guerra. Di più: nella maggior parte dei casi, la guerra era condotta per motivi «tradizionali»; cioè, gli Uroni erano nemici “tradizionali” degli Irochesi, i quali lo erano degli Algonkini, i quali… Certi nomi, dati a una nazione dalle altre, erano significativi: «Apache» voleva dire «il nemico», «Sioux» stava per «serpente», eccetera. Nelle guerre canadesi gli inglesi e i francesi trovarono subito alleati tra le tribù indiane, già nemiche per conto loro. Gli scout della cavalleria statunitense erano arruolati in tribù ostili fra loro. Si calcola che almeno il 50% della popolazione indigena sia stato sterminato in queste guerre incessanti, cosa che spiega perché i primi esploratori bianchi trovarono immense aree del tutto spopolate. L’incredibile varietà di “dialetti” tuttora esistenti fra i popoli amerindi – in una sola nazione possono esisterne migliaia – è dovuta soprattutto alle continue separazioni interne dovute agli odii e alle conseguenti guerre.
Insomma, malgrado fiction pur premiate con l’Oscar come Balla coi lupi, la descrizione dell’incontro tra il bianco civilizzato violento, avido e fanatico, e l’indiano pacifico, generoso e fiero è puramente fantastica e non rispondente al vero. Sono molto rari i film in cui le cose vengono presentate in modo verosimile. Uno è, per esempio, il vecchio Passaggio a Nordovest con Spencer Tracy. Un altro è Manto nero, un film degli anni Ottanta che descrive il sacrificio dei gesuiti tra gli indiani del Canada. Per restare ai gesuiti, anche il celebre film Mission può trarre in inganno perché mostra gli indios del Guarany dopo la loro civilizzazione da parte appunto dei gesuiti. La loro esistenza, prima dell’evangelizzazione, era anche peggiore di quella che abbiamo fin qui descritto.
IL TIMONE – Marzo 2007 (pag. 20-21)

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