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Il Pound ritrovato
NEWS 1 Ottobre 2022    di Valerio Pece

Il Pound ritrovato

Il 1 ottobre del 1972, a Venezia, moriva Ezra Pound, talento poetico per troppo tempo infestato da spettri che non hanno permesso di arrivare al cuore della sua umanità. La prossimità del poeta al fascismo – di cui apprezzava le imponenti opere pubbliche, le misure sociali in favore dei lavoratori, «il rinascimento o ringiovanimento della nazione», come scrisse nella dichiarazione che rilasciò agli agenti americani che lo arrestarono per tradimento – continua ancora ad essere una barriera per la sua comprensione. E forse anche una ferita. Eppure la sua instancabile attività di poeta, di prosatore, di traduttore, di pubblicista politico, di critico, di fondatore di riviste, fa di lui «un gigante, uno spartiacque della letteratura del Novecento» (così Massimo Cacciari).

Con l’epica dei suoi Cantos (poema scritto tra il 1915 e il 1962 e raccolto in una decina di volumi), Pound è l’unico che abbia osato pensare una Divina Commedia per il nostro tempo. I Cantos sono una monumentale opera incompiuta eppure compiuta, frammentaria e al tempo stesso unitaria, che qualcuno ha paragonato alla Sagrada Famiglia, ancora in fieri eppure già capolavoro.

In tempi di etichette e conformismo culturale, il gigante Pound è un “dimenticato speciale”, da seppellire definitivamente, da rimuovere attraverso l’arma della Cancel culture. E ciò malgrado la stima sterminata dell’amico Thomas S. Eliot, il quale gli dedicò («al miglior fabbro») il suo poema La terra desolata. Malgrado, ancora, l’amicizia strettissima di Hemingway, che andava a trovare Pound in manicomio, e che il giorno del 57° compleanno mandò all’amico il denaro che gli restava dal Nobel, scrivendogli che «malgrado alla radio italiana non mi piacevi affatto […] se ti avessero impiccato io sarei salito sul patibolo e mi sarei fatto impiccare a mia volta». Alessandro Rivali, che su Pound ha scritto uno dei libri più affascinanti mai pubblicati (Ho cercato di scrivere Paradiso, Mondadori), racconta in un’intervista un episodio formidabile (e rivelatore) riferitogli da Mary de Rachewiltz, figlia del poeta: «Quando Hemingway morì, Pound era ricoverato in clinica a Merano. Nessuno gli aveva dato la notizia della morte dell’amico, eppure lui ne era a conoscenza perché l’aveva visto in sogno».

PASOLINI, IL COMUNISTA CHE CHIAMAVA POUND “MAESTRO”

Finanche Pasolini rintracciò un’affinità tra sé e quell’ingombrante statunitense, tanto che intervistò Pound in una memorabile pagina di televisione (esempio rarissimo di tv alternativa). Proprio su quell’intervista, Sergio Castellitto – interpellato in occasione dell’uscita nella sale di “Dante”, film di Pupi Avati – ha speso parole profonde e per molti versi definitive. Così l’attore romano su Repubblica: «I poeti hanno tutti qualcosa in comune. Per esempio spesso ho pensato a Pasolini, pensando a Dante, a una certa sua supposta o vera scomodità, politica e sociale. Una delle interviste più straordinarie che Pasolini ha fatto è stata quella a Ezra Pound, culturalmente, politicamente fascista. Soltanto il poeta e il grande intellettuale ha la forza di superare questo ostacolo per andare al nocciolo nucleare dell’arte. I versi di Ezra Pound sono straordinari, a prescindere dalla sua storia. E Pasolini va ad intervistare lui. L’esercito dei poeti è unico».

L’innamoramento intellettuale del poeta friulano nei confronti dell’autore dei Cantos (negli anni in cui «uccidere un fascista non è reato», Pasolini arrivò a definire Ezra Pound “un maestro”) scattò alla scoperta che anche per Pound esisteva un’inconciliabilità tra il mondo contadino e quello industriale e capitalista: «L’esistenza dell’uno», commentava Pasolini, «vuole dire la morte (la scomparsa) dell’altro». Diverso, come è ovvio, era invece il giudizio di Pasolini su quanti si erano appropriati di Pound, strumentalizzandolo oltre misura. «Il serpentaccio fascista» – scriveva Pasolini con immagine biblica – «non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale». Per i miopi parametri di oggi, una protezione a tutto tondo, assolutamente “scandalosa”.

Circa la contiguità tra i due, osservati nella posizione di maestro e allievo, coglie nel segno Alice Felice, autrice di molti libri su Pasolini, e fino al 2018, anno della sua morte, direttrice del Centro Studi «Pier Paolo Pasolini» di Casarsa. Scrive Felice: «A metà degli anni Settanta Pasolini regolò i conti con la complessità controversa di quel colosso della poesia del ‘900, finendo per sovrapporvi la propria fisionomia di intellettuale corsaro e per leggervi la condivisione di una comune polemica radicale contro la modernità, responsabile di sviluppo senza progresso e, negli esiti ultimi, di un (irreversibile?) genocidio culturale».

MONTANELLI: «SOLO GLI SCIOCCHI POSSONO TEMERE UN POETA»

Un sentimento di sana pietà a Pound andrebbe assicurato anche soltanto per le sue dolenti vicissitudini terrene, per il trattamento inumano subito. Internato, nel ‘45, nel campo di concentramento di Coltano, nei pressi di Pisa («cotto dal sole di giorno, accecato dai riflettori la notte. Eppure, continuava a scrivere, a cantare la bellezza», così Alessandro Rivali descrive la nascita dei Canti Pisani), il poeta fu poi trasferito negli Stati Uniti. L’accusa di “alto tradimento” fu giustificata dal fatto che Pound, durante la guerra, aveva pronunciato discorsi di propaganda antiamericana alla radio italiana. Dichiarato infermo di mente e internato nel manicomio criminale di Saint Elizabeths, a Washington, fu finalmente liberato nel 1959, anche in seguito degli appelli provenienti da tutto il mondo. A quel punto ritornò in Italia, prima a Rapallo poi a Venezia, dove rimase fino alla morte, sopraggiunta il primo giorno di ottobre di cinquant’anni fa.

Pur al netto delle amicizie e delle vicissitudini, continuare a ignorare una figura centrale della cultura mondiale, in Italia è difficile ma non impossibile, se è vero come è vero che il cancro del politicamente corretto è ormai andato in metastasi. Al contrario, in un passato anche recente, la discussione su Pound e sul suo ritorno sul suolo italiano è stata accesa e intellettualmente intrigante. Fu Indro Montanelli a intuire per primo che le cosiddette élites culturali avrebbero alacremente lavorato nella direzione di una damnatio memoriae, per cui, col suo inconfondibile stile, appuntò sul Corriere quello che era il sentire comune degli italiani di allora. «Ezra Pound», scrisse il giornalista, «sta per tornarsene a casa con una bella patente di matto che lo libera dall’accusa di tradimento, per la quale l’hanno tenuto dodici anni in gabbia. Gli Americani non escono bene da questo affare. Io spero che Pound torni». Montanelli spiegò così le sue ragioni: «Prima di tutto perché è un vecchio amico e un vecchio uomo che, dopo tutto quello che ha passato, ha il diritto di finire i suoi giorni nella terra che, sia pure per equivoco, ha eletto come patria. E poi perché delle opinioni politiche di un poeta possono avere paura solo gli sciocchi».

POUND, SE NON ORA QUANDO?

Ma l’onestà intellettuale e la schiena dritta del gran toscano sono distanti anni luce, tanto che oggi per Ezra Pound sembra essere arrivato il momento del rendiconto finale, dell’“ora o mai più”. O la classe intellettuale di questo paese prende coraggio e rompe con le etichette (prima tra tutte il rimando puerile alla formazione di destra CasaPound, contro cui, tra l’altro, la figlia del poeta americano ha fatto causa), oppure l’autore di quei Cantos che i critici hanno definito la “Divina Commedia del ‘900” continuerà colpevolmente ad essere sottratto alle giovani generazioni.

Un delitto culturale, consumato sul terreno del conformismo e della povertà intellettuale, che non può più rimanere impunito, specie a cinquant’anni dalla morte del poeta e in una congiuntura politico-culturale finalmente favorevole. (Foto: YouTube)

 

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