Il motu proprio Summorum Pontificum è stato senza dubbio uno degli atti più importanti – e contestati – del pontificato di Benedetto XVI. Non è stato una concessione alla realtà levebvriana in vista di una sua piena regolarizzazione, come spesso è stato detto. Ratzinger ha fatto capire chiaramente, in diverse occasioni, il vero significato della sua decisione: sanare il vulnus che era stato fatto dal modo con cui era stata applicata la riforma liturgica, perché «ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso»; rendere anche liturgicamente evidente come la vera interpretazione del Concilio Vaticano II debba essere quella di una «riforma nella continuità», non di una «rottura» con la Tradizione della Chiesa; infine, far sì che il ripristino dell’antico rito romano, il suo esempio, aiuti il nuovo rito, il novus ordo, a essere pienamente romano e pienamente cattolico di fronte a una situazione che è sotto gi occhi di tutti: una liturgia che si è degradata fino a diventare qualcosa di radicalmente “altro” rispetto a ciò che dovrebbe essere.
Ci vorrà tempo prima che il Summorum Pontificum esplichi tutte le sue potenzialità. I frutti sono però già oggi impressionanti. Senza contare le comunità e le congregazioni che attorno al rito romano antico stanno fiorendo in quanto a vocazioni e apostolati, basti pensare che sono ben 394 i cardinali e vescovi che dal motu proprio di Benedetto XVI a oggi hanno celebrato o assistito a liturgie secondo l’usus antiquior. Questo è il conto aggiornato fornito da uno dei siti che si occupano di monitorare l’impatto del Summorum Pontificum, che fornisce anche un elenco di nomi.
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