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La «buona battaglia» di «Aiuto alla Chiesa che Soffre» contro il fanatismo islamista
NEWS 21 Dicembre 2015    

La «buona battaglia» di «Aiuto alla Chiesa che Soffre» contro il fanatismo islamista

di Riccardo Pelliccetti

«La comunità internazionale dà l'idea di destarsi a intermittenza. Non basta svegliarsi solo quando attaccano le città europee, gli attacchi e le persecuzioni dei cristiani vanno avanti da anni». Alessandro Monteduro, direttore di "Aiuto alla Chiesa che soffre" (ACS), non nasconde la sua perplessità di fronte agli atteggiamenti titubanti dei governi occidentali, ma allo stesso tempo sottolinea la crescente sensibilità della gente comune verso le comunità cristiane perseguitate. Fondata nel 1947 dal monaco olandese Werenfried van Straaten, ACS oggi porta soccorso alla Chiesa in quei Paesi dove la povertà o le persecuzioni ne rendono difficile o impossibile la sua missione. «"Aiuto alla Chiesa che soffre" è un'organizzazione internazionale con 21 sedi nel mondo e continua crescere – spiega Monteduro – Nel 2014 abbiamo raccolto 105 milioni di euro, grazie alla generosità dei benefattori, e finanziato 5614 progetti in 145 Paesi. Chiuderemo il 2015 con numeri ancora maggiori: circa 130 milioni di raccolta, finanziando oltre 8mila progetti».

La crescita dei vostri interventi però delinea anche la crescita delle persecuzioni e dell'intolleranza verso i cristiani. «Ci sono due letture, aumentano le persecuzioni e le situazioni di povertà soprattutto in alcune aree, come il Medio Oriente. Ma l'altra faccia della medaglia è che aumenta l'attenzione e la reazione all'ingiustizia da parte dei popoli occidentali».

Parla di popoli e non di governi. «Obama, dopo Parigi, parlò di attacco all'umanità e ai nostri valori universali. Chi non condividerebbe queste parole? Ma c'è un particolare: se è un attacco all'umanità e ai nostri valori, non dovremmo parlarne solo quando vengono colpite le città europee. Gli attacchi ai nostri valori c'erano da tempo, anche la settimana precedente alle stragi di Parigi, con l'attentato a Beirut o con la tragedia dell'aereo russo decollato da Sharm el Sheikh».

C'è un piano congegnato dagli islamisti per cacciare tutti i cristiani dal Medio Oriente? «Ahimé sì. Lo dicono innanzitutto i numeri dell'Iraq, dove sono rimasti circa 300mila cristiani, mentre fino al 2002 erano oltre un milione. In media ne sono fuggiti dal Paese quasi 60mila all'anno. Se la tendenza dovesse continuare nei prossimi cinque anni, la comunità cristiana in Iraq scomparirà del tutto. Lo stesso fenomeno si sta profilando in Siria».

C'è un modo per fermare questo processo? «Il Pontefice ha già dato una risposta a questa domanda. La comunità internazionale non può più continuare a discutere solamente. Lo stesso Papa credo abbia parlato dell'opportunità di costituire una forza multilaterale che affronti il problema alla radice».

Pensa che un intervento militare internazionale possa normalizzare la situazione? «Se la forza multilaterale fosse coesa e convinta e se coinvolgesse anche i paesi arabi confinanti, sarebbe la definitiva soluzione».

In questi giorni avete lanciato un nuovo appello per i cristiani perseguitati in Siria e messo in campo due iniziative per il prossimo Natale. «In Siria dal 2011 all'ottobre 2015, attraverso la generosità dei benefattori, siamo intervenuti con circa 8,6 milioni di euro. La nuova iniziativa per i cristiani di Aleppo è importante. In quella città l'inverno è rigido e procurare loro abiti e scarpe adeguati non è un dettaglio. Ad Aleppo poi non arriva più il combustibile. Dare possibilità ai cristiani che non sono fuggiti (i più poveri perché non avevano la possibilità di scappare) di acquistare il gasolio per riscaldarsi è un elemento vitale. Interveniamo anche perché vivano la loro fede e continuino a essere cristiani nella loro terra. Costruzioni religiose e formazione religiosa: è il senso del secondo progetto nel villaggio di Dmeineh, dove bisogna consentire ai bambini di sviluppare la loro fede, come abbiamo fatto noi nella nostra infanzia con il catechismo».

Cosa potrebbe fare l'Italia, oltre a partecipare a un intervento multilaterale, per aiutare i cristiani perseguitati? «L'Italia potrebbe occuparsi intanto di quelli che vogliono lasciare la Siria, l'Iraq o la Nigeria. Il governo potrebbe ridurre i tempi per concedere lo status di rifugiato. Oggi ci sono 40 commissioni disseminate sul territorio nazionale e i tempi per la valutazione vanno dai 18 ai 20 mesi. Un'enormità».

Che cosa proponete? «Se mi presento col passaporto siriano e il certificato di battesimo rilasciato dalla mia diocesi, non ci dovrebbe essere la necessità di attendere 20 mesi, periodo in cui sono senza lavoro, senza dignità e vivo in un limbo. Il certificato di battesimo è il miglior documento per attestare di essere cristiano e quindi in fuga dalle persecuzioni».

Il vescovo di Aleppo ha detto recentemente: «Aiutate chi ha bisogno ma non incoraggiateli a venire da voi. Dobbiamo restare a casa nostra». «È la missione di "Aiuto alla Chiesa che soffre". Di fronte alla brutale aggressione dello Stato Islamico, il modo migliore per rispondere è far sì che la cristianità e il cristianesimo non scompaiano. L'Isis avrà vinto nel momento in cui non vi sarà più un cristiano in Iraq o in Siria. Dobbiamo impedire che ciò accada».