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13.12.2024

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La camicia insanguinata del Beato Livatino visita Napoli. Una chance per gli “operatori di giustizia”
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2 Marzo 2024

La camicia insanguinata del Beato Livatino visita Napoli. Una chance per gli “operatori di giustizia”

Fino a lunedì 4 marzo la Cattedrale di Napoli ospiterà la reliquia del Beato Rosario Livatino, il giudice assassinato a soli 38 anni da quella Stidda agrigentina per anni acerrima rivale di Cosa Nostra. Si tratta della camicia sporca di sangue che il “giudice ragazzino” indossava il 21 settembre del 1990, quando il suo corpo venne crivellato di colpi per mano di cinque giovani («Che vi ho fatto, picciotti?» furono le ultime parole di un giudice che aveva rifiutato la scorta «per non lasciare vedove e orfani»).

Dopo l’accoglienza della reliquia sul sagrato della Cattedrale, la Messa d’apertura e l’incontro con oltre 5000 studenti delle scuole del territorio, ieri il cardinale Angelo Comastri, Arciprete emerito della Basilica Vaticana, ha presieduto una Via Crucis in Duomo. Significativo e simbolico che siano stati proprio magistrati e avvocati a mettersi in processione e a meditare sulle 14 stazioni, le ultime ore della vita di Gesù. E proprio ai suoi ex colleghi magistrati si rivolse il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Alfredo Mantovano quando la reliquia del Beato Livatino arrivò a Roma per la solenne Passio Martyris. Era il gennaio del 2023. «Livatino non è un uomo di altri tempi, se fosse rimasto in vita sarebbe andato in pensione da poche settimane», affermò in quel frangente Mantovano rispondendo ai giornalisti nel traffico della Capitale, «il che significa che ha molto dire non solo ai cristiani in generale, a coloro che praticano la giustizia, ma in particolare ai magistrati del nostro tempo, in termini non soltanto di rigore professionale, ma anche di riservatezza, di tempestività di deposito dei provvedimenti». Parole che oggi, nel tempo di quella riforma della magistratura interessata anche dell’adeguatezza professionale del giudice (compresa quella valutazione psicoattitudinale per i candidati che entrano in magistratura fino a ieri, chissà perché, considerata tabù) suonano particolarmente attuali.

Eppure il sacrificio di sangue di Livatino, giovane ma impeccabile professionista, andrebbe preso molto più sul serio dal cosiddetto “mondo del diritto”. Nel libro scritto da Alfredo Mantovano, Domenico Airoma e Mauro Ronco per il Timone, Un giudice come Dio comanda, si legge che Livatino «in 12 anni non rilasciò mai un’intervista», e che «l’imponenza, la qualità e l’intensità del lavoro di contrasto alle mafie» avvennero in un tempo in cui «non esisteva il 41 bis per i mafiosi», in cui «“i pentiti” si contavano sulle dita di una mano» e in cui la Procura nazionale antimafia doveva ancora essere inventata (ci penserà Falcone). Ma c’è di più.

Livatino non solo era inavvicinabile dalla malavita («irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante»), ma si batteva anche contro il morbo più devastante che oggi affligge la giustizia (e che sui delicati temi bioetici trova il suo terreno più fertile): «La pretesa di superiorità etica del magistrato, quell’“attivismo giudiziario” che decide che esistono vuoti normativi, e che punta a colmarli andando oltre i confini dell’interpretazione, per giungere all’“invenzione del diritto”». Il patrocinio offerto dalla Regione Campania e dal Comune di Napoli all’importante programma promosso e organizzato dalla Cattedrale di Napoli potrebbe suonare come un implicito (o forse solo inconsapevole) riconoscimento al merito.

Quello che ancora tende a non essere compreso fino in fondo – senza distinzione tra politica, magistratura e società civile – è il significato profetico della testimonianza di Rosario Livatino. Esisterebbe, cioè, un “sistema” (Palamara dixit) ancor più pericoloso di quello fatto di spartizioni e appartenenze, e che per Mantovano, Airoma e Ronco mette insieme «non soltanto magistrati, politici e affaristi, bensì pure giudici di corti sovranazionali […] gestori dei circuiti dell’informazione, con l’obiettivo di cambiare non tanto la società, quanto l’uomo». È contro questa «ingegneria sociale» che Livatino, in ultima analisi, si batte (appellandosi a quella coscienza che aveva messo “Sub tutela Dei”). Ed è questa la vera chance che offre al mondo il primo magistrato dichiarato Beato dalla Chiesa.

Dopo aver toccato, ieri, il mondo che ruota intorno agli “operatori della Giustizia”, nel pomeriggio di oggi la reliquia del Beato siciliano entrerà in quello (non meno problematico) delle carceri partenopee. Seguendo il senso della “Peregrinatio Rosarii Livatini”, il cammino della camicia intrisa di sangue del giudice, la reliquia visiterà prima i detenuti del carcere di Poggioreale, e poi quelli dell’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida; «per un incontro di riflessione e preghiera con i detenuti», così recita il ricco programma che domenica 4 marzo si concluderà con un incontro di preghiera presieduto dall’Arcivescovo di Napoli. «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Questo, per Napoli e per il mondo, è l’insegnamento di un uomo di legge che la fede in Cristo aveva reso integro nel giudizio, tremendo verso i mafiosi e modello per i suoi colleghi.

 

(Fonte foto: Imagoeconomica)

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