Il divieto della maternità surrogata è legittimo. Rappresenta senza dubbio un verdetto di peso, quello emesso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con una decisione datata 18 maggio che, c’è da immaginare, farà discutere a lungo. Sì, perché con questa sentenza i giudici di Strasburgo hanno ragione alle autorità islandesi che non hanno riconosciuto a una coppia di sue cittadine – Valdís Glódís Fjölnisdóttir ed Eydís Rós Glódís Agnarsdóttir – la genitorialità su un bambino nato in seguito alla maternità surrogata, e senza alcun legame genetico con la coppia, in California nel 2013.
La vicenda giudiziaria era nata dopo che le due donne, rientrate in Islanda con il piccolo in braccio tre sole settimane dopo la nascita, avevano chiesto la cittadinanza islandese per il minore e che fosse riconosciuto come figlio della coppia. Il punto è che, essendo in Islanda vigente il divieto di maternità surrogata – essendo il piccolo in questione nato da madre americana -, quest’ultimo è stato considerato, semplicemente, come minore non accompagnato posto sotto la tutela delle due donne: ma non loro figlio.
Successivamente, una svolta giurisprudenziale islandese aveva fatto in modo che, nel 2015, il minore potesse avere il passaporto islandese, ma – nonostante i ricorsi promossi dalle due donne – alla coppia non venne egualmente riconosciuta la potestà genitoriale. Nel 2017, poi, la Corte suprema islandese aveva confermato quanto stabilito dalla Corte distrettuale, in ordine del fatto che «in Islanda la madre naturale è la madre e le autorità non hanno l’obbligo di riconoscere i richiedenti come genitori».
Oggi le due donne hanno una nuova relazione, ma la questione giudiziaria era rimasta aperta. Fino a poche ore fa, s’intende, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, in Islanda, il vigente « divieto della maternità surrogata è servito a proteggere gli interessi delle donne che potevano essere spinte alla maternità surrogata, così come i diritti dei bambini di conoscere i loro genitori naturali». Quindi, hanno concluso i giudici, «il mancato riconoscimento di un legame genitoriale formale, confermato dalla sentenza della Corte Suprema, aveva raggiunto un giusto equilibrio tra il diritto dei ricorrenti al rispetto della vita familiare e gli interessi generali che lo Stato aveva cercato di proteggere con il divieto di maternità surrogata».
Insomma, il divieto dell’utero in affitto, in uno Stato, è cosa lecita nonostante le aspirazioni genitoriali che si possono avere. Ovvio, si dirà. Tuttavia, ciò non toglie come la decisione della Corte di Strasburgo risulti significativa, sia perché costituisce un precedente – che inevitabilmente farà giurisprudenza – sia perché, in una fase storica in cui sono fortissime le pressioni per sdoganare la maternità surrogata, tale verdetto dà argomenti e forza a coloro che vi si oppongono. E anche, a ben vedere, alla stessa Italia, se si pensa che da noi – legge 40 alla mano – non solo è vietata la maternità surrogata, ma anche chi la pubblicizza «è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro» (articolo 12, comma 6).
Questo significa che, nel definire l’ostilità all’utero in affitto della giurisprudenza islandese né «irragionevole» né «arbitraria», la Corte europea dei diritti dell’uomo ha lanciato un assist notevole ben oltre i confini di quel Paese. Ribadendo che ci sono presunti diritti – per esempio quello di diventare genitori a tutti i costi -, che diritti, semplicemente, non sono.
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