46 secondi. Meno di un minuto. E la “tigre”, così si presenta sui social, si è inginocchiata piangendo lacrime amare. Il sogno olimpico di Angela Carini è finito così, infranto sul ring inclusivo delle olimpiadi parigine. Napoletana cresciuta ad Afragola, classe 1998, mamma e papà poliziotti, la Carini entra a far parte della sezione giovanile delle Fiamme Oro e inizia ad emergere piano piano. Anni di sacrifici, allenamento, disciplina per arrivare lì dove ogni atleta sogna di essere. Nella sua giovane vita ha già dovuto affrontare la dura prova della morte prematura dell’amato papà.
È per lui che, nonostante le polemiche montassero in questi giorni, ha deciso di salire lo stesso su quel ring. Sperava di farcela, di riuscire a combattere, e magari, anche di poter vincere. Invece è bastato un pugno, un gancio ben assestato, per farle alzare bandiera bianca. «Ero salita sul ring per combattere. Non mi sono arresa, ma un pugno mi ha fatto troppo male e dunque ho detto basta. Mi faceva troppo male il naso, non potevo andare avanti e mi sono detta che dovevo fermarmi. Poteva essere il match della mia vita, ma ho dovuto pensare a salvaguardare la mia incolumità». Chi li difende oggi i suoi sogni di giovane donna?
Certo non i commentatori Rai che nei concitati secondi della rinuncia alla gara dall’atleta azzurra si affrettano a dire che «si dissociano». E da cosa si dissociano, verrebbe da chiedersi? Da un’atleta di venticinque anni che si ritira dal suo sogno piangendo? Ma c’è da capirli, anche loro camminavano sulle uova dopo che negli scorsi giorni era montato il caso di Iman Khelif, atleta di nazionalità algerina che nel 2023 la International Boxing Association (IBA) aveva escluso, insieme a Lin Yu-ting, dai mondiali in India perché in loro era stato riscontrato un tasso di testosterone troppo alto. Inoltre entrambi, spiegavano dalla IBA, «avevano cromosomi XY che li qualificavano come biologicamente uomini». Per tutta la giornata di mercoledì i grandi media hanno parlato di atleta trans, o transgender, o transessuale, che avrebbe sfidato l’azzurra Carini.
Qualche ora e fiumi di inchiostro dopo è scattato il contrordine compagni, Khelif non sarebbe più transgender, bensì intersessuale. In rete ci sono pochissime informazioni su Iman Khelif, non si trovano informazioni sulla sua biografia se non la città natale, nulla si trova sul suo eventuale “percorso di transizione” ma nemmeno si trovano le fonti e le coordinate di questa presunta e non precisata intersessualità. Il Comitato Olimpico non ha chiarito, dall’Algeria nessun chiarimento, Iman Khelif a sua volta non ha chiarito nulla e quindi mentre scriviamo tutti quanti ripetono che sì, è proprio intersessuale, quindi escluderla – scrivono usando rigorosamente il femminile come neolingua vuole – sarebbe una discriminazione.
Solo che transessuale o intersessuale sono due facce della stessa medaglia, la medaglia woke, inclusiva, che vuole etichettare gli orientamenti sessuali e le identità di genere, superando il vetusto binarismo sessuale. Eppure l’unica cosa certa in questa storia sono i dati scientifici, ovvero i cromosomi XY. Maschili. Indiscutibilmente. Cromosomi che si ripetono in tutte le cellule del corpo di Khelif compresi i capelli, le ossa, i tendini, i muscoli. E tutto questo viene ancora prima del fattore testosterone alto, che è un fattore ulteriore. Il suo quindi è stato un pugno maschile, 160 volte più forte di quello femminile. Per questo alla Carini sono bastati quaranta secondi e un gancio per capire che quella non era una sfida impari.
E i pulpiti che si riempiono la bocca dei cosiddetti diritti delle donne non hanno certo preso le sue difese, anzi. Monica Cirinnà ha scritto: «Iman Khelif è un’atleta intersex socializzata donna alla nascita e ha superato tutti i test del Comitato olimpico rientrando perfettamente nei parametri». Laura Boldrini ha parlato di una «polemica surreale montata dalla destra». Lodevole eccezione a sinistra quella di Martina Riva, assessore allo Sport del Comune di Milano, che ha commentato: «Lo sport è competere ad armi pari. Quelle non erano armi pari». Praticamente una donna del Pd sulla stessa linea di Giorgia Meloni, che sul caso ha ribadito: «Non è stata una gara ad armi pari. Sono anni che ribadisco che alcune tesi portate all’estremo finiscano con l’impattare negativamente sui diritti delle donne».
Siamo di fronte al famoso caso del forellino della diga, detto anche caso eccezionale. «Certo l’aborto è un male, però in casi eccezionali, tipo lo stupro, magari lo stupro di una bambina di 11 anni, magari da parte del suo stesso padre padre, con il feto malformato, allora in quel caso potremmo anche eccezionalmente tollerarlo». Oppure: «Certo l’utero in affitto è un abominio, ma se una donna non ha le tube, non ha l’utero, e sua sorella si offre di farlo per lei, senza sfruttamento, senza soldi, allora solo in quel caso è giusto, per non discriminare». È lo stesso principio, quello che abbiamo visto troppe volte. La diga, a furia di fori, crolla.
Così da ieri milioni di persone sono convinti che ovviamente i maschi non possono competere nelle gare femminili, tranne le eccezioni. A farne le spese sono loro, le donne. E le femministe? Non pervenute. O forse dovremmo dire non pervenut3. Ma anche qui – per amor di verità – registriamo un’altra lodevole eccezione, quella di RadFem Italia, sul cui profilo Facebook si legge: «No Angela, non va bene, altroché se devi giudicare, devi gridare al mondo la vergogna delle Olimpiadi più misogine della Storia. Basta lacrime, si va tutte unite! Le sorelle Radicali di tutto il mondo sono dalla parte tua. Vergogna infinita sulle pie ancelle che gioiscono per la grande prova di inklusione. Ora la misoginia si chiama così». (Fonte foto: Ansa)
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