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La dritta via nella selva di pietra del Duomo di Milano. Una storia meravigliosa da non perdere
NEWS 9 Ottobre 2017    

La dritta via nella selva di pietra del Duomo di Milano. Una storia meravigliosa da non perdere

di Caterina Giojelli
su «Tempi»

 

Era partito con due buoni cavalli e prima della fine di settembre era già a Milano. Ed ecco, dopo che ebbe risalito il corso di Porta Romana, spalancarsi davanti ai suoi occhi il grandioso cantiere brulicante del Duomo. Pare di vederlo, attraversare la cortina umana affaccendata intorno alla messa in posa dei marmi di Candoglia, tra fondamenta compiute, i finestroni disegnati dal francese Nicolas de Bonaventure, i muri che crescevano a corona dell’ormai fragile basilica di Santa Maria Maggiore al centro di tutto quel lavorìo. E tutto intorno era un picchiettare di mazzuoli e martelline, fragorosi colpi d’ascia, un vociare di lingue e di dialetti incomprensibili degli operai scesi dalle valli prealpine, scalpellini di lingua tedesca e volontari venuti a prestare il loro maldestro e gratuito aiuto per sola fede e devozione all’opera della cattedrale.

Era l’anno 1391. Per quanto conoscesse bene la pratica di cantiere e il gergo dei maestri ingegneri è facile immaginare la meraviglia che colse l’esimio “matematicus expertus in artis geometriae” Gabriele Scovaloca quando giunse nel luogo che avrebbe popolato il tempo e il cuore di Milano di un popolo di santi in pietra: innalzati sì da lasciti e testamenti di pii e devoti, e dai gioielli delle nobildonne, ma anche dall’obolo spicciolato in cassette ai crocicchi delle strade da usurai, criminali, carcerati, prostitute che terminato il loro giro notturno procedevano alla conta del gruzzolo e ne versavano una parte alla Madonna, «non esitando a far trascrivere all’officiale di turno all’altare sul Registro delle oblazioni il loro nome accompagnato dall’inequivocabile meretrix» (Martina Saltamacchia, Milano, un popolo e il suo Duomo, Marietti 1820), così come dalle donazioni di miseri poveracci: i bottoni, le pelliccette logore, la cera per l’illuminazione o il pane e il vino per rifocillare gli operai che venivano deposte ai piedi dell’altare.

Ecco, tutto questo, la natura corale di un popolo che suggestionò l’opera degli scultori che ne avrebbero poi sbozzato centinaia di facce e storie sul Duomo, doveva essere chiarissima all’influente matematico giunto a Milano. Noto anche come Gabriele Stornaloco, ma appartenente all’influente famiglia piacentina degli Scovaloca, ricchi mercanti, banchieri di fiducia del Papa e importatori di lane dall’Inghilterra, a quell’uomo che si aggirava nel cantiere era stato affidato il compito più difficile.

Giuseppe Valentini ne ha ricostruito e raccontato la vicenda nel bel libro edito da Lindau Il Duomo di Milano. L’ultima delle grandi cattedrali gotiche, un’opera capace di sprofondarci nella Milano del XIV secolo di Gian Galeazzo Visconti e della sposa Isabella di Valois, figlia del Re di Francia, durante la fase culminante del Grande Scisma.

Quasi intercorressero invisibili connessioni tra le vicende della Chiesa universale e la cattedrale, in quegli stessi anni in cui si dibatteva di accordi tra fede e ragione, ordine fisico e metafisico, nel cantiere del Duomo si andavano inasprendo confronti e rivalità tra architetti. Fin dal 1386 l’arcivescovo Antonio da Saluzzo e il Duca si erano accordati sulla necessità di costruire una nuova chiesa al posto dell’antica e pericolante Santa Maria Maggiore, tuttavia lo stile antiquato delle fidate maestranze lombarde non sembrava gradito a una Corte che non nascondeva la propria predilezione per lo stile delle cattedrali gotiche d’Oltralpe e per gli architetti nordici. Per questo vennero chiamati a Milano maestri da Francia e Germania, i mattoni “faccia a vista” vennero sostituiti con il roseo marmo delle cave di Candoglia, e si iniziò la ricerca di ingegneri esperti presso le corti e i cantieri di tutt’Europa.

Ma le diversità di tradizioni, consuetudini costruttive e dei modelli di fabbrica adottati iniziarono in fretta a mettere in croce l’opera. «Le cattedrali del Nordeuropa presentano una disposizione della pianta più snella e allungata e lo spazio interno più complesso e articolato del Duomo di Milano, che disorientava gli architetti francesi e tedeschi». La sua semplicità strutturale giocata su un’immensa cavità spaziale, ritmata da colonnati smisurati che raggiungevano da 24 a 30 metri d’altezza, isolati e senza alcun supporto laterale, sconcertavano i maestri d’Oltralpe, avvezzi all’uso di archi, contrafforti, gallerie, cappelline per riequilibrare le forze.

Gli avvenimenti precipitarono nel 1390, quando venne improvvisamente sospeso dal salario e dalle opere Nicolas de Bonaventure, il geniale autore del disegno dei finestroni absidali e “rivale” dell’ingegnere Simone da Orsenigo, nominato poco prima maestro delle opere della Fabbrica. La stessa sorte di Nicolas sarebbe toccata nei mesi e anni successivi al maestro tedesco Giovanni da Firimburg, ad Enrico Parler, un’autorità proveniente dal cantiere della cattedrale di Ulm, a Giovanni Mignot, maestro parigino, che arrivò a pretendere (invano) la demolizione delle strutture fino allora eseguite, con il pretesto dell’incultura scientifica dei lombardi che non intendevano rinunciare ai propri metodi. I dubbi sull’affidabilità statica delle strutture dell’alzato alimentarono insicurezza tuttavia fin dal 1391, i lavori rallentarono fino a quasi bloccarsi. Fu allora che la Fabbrica si rivolse all’arcivescovo e al Duca implorando l’aiuto di qualcuno che ristabilisse un clima di fiducia tra gli irrequieti del cantiere. E così, il 24 settembre, Gabriele Scovaloca arrivò a Milano.

Il cielo e le costellazioni
Una perizia, ecco cosa veniva chiesto al matematico piacentino: tacitare le obiezioni formulate dai migliori architetti d’Europa. Si diceva che avesse tutti i titoli e le qualità personali per arbitrare la questione. E così fece. «Non avrà neppur pensato di proporre un modello di cattedrale diverso da quello che avevano prefissato i deputati della Fabbrica fin dall’inizio» scrive Valentini. «Interpreta ed espone l’idea del Duomo che doveva essere propria dei suoi primi costruttori e offre una testimonianza forse unica nella storia dell’architettura medievale, per la chiarezza con cui dimostra l’idea ispiratrice e il metodo logico applicato alla composizione strutturale e formale dell’ultima grande cattedrale gotica. Un metodo che era stato elaborato nei monasteri e nelle università da generazioni di teologi e di pensatori e perfezionato massimamente da san Tommaso nella sua riflessione instancabile sulla natura, sulla conoscenza e sul problema centrale dell’essere».

Una sintesi dantesca
Sintesi mistica e reale dell’universo purificato dalla Redenzione, il matematico era l’esperto più adatto per tradurre l’idea del tempio in forma architettonica: possedeva conoscenze di astronomia, di geometria, di aritmetica e metafisica quanto occorreva per intendere e tradurre in uno schema idee e simboli proposti da dottori e da teologi. Il suo contributo, documentato in modo forse unico nella storia delle cattedrali e ben spiegato da Valentini, è rappresentato da un disegno e una relazione scritta che espone con chiarezza l’idea geometrica, ispiratrice dell’alzato, ricavata da uno schema della cosmografia celeste. «La costruzione di una cattedrale rievoca infatti la creazione primigenia del cosmo, quell’evento che i miniatori hanno raffigurato a volte come l’azione di un grande compasso tra le dita del Creatore». Anche Gabriele lavora bene di compasso e la prima figura disegnata è «il cerchio che comprende anche il triangolo, il lato del quale è la larghezza della chiesa», primo di una serie concentrica di tre che costituisce l’impianto di tutto lo schema d’alzato del Duomo.

Applicando la regola ordinatrice del creato, a partire dalla riproduzione del diagramma delle costellazioni zodiacali, Gabriele individua nel cerchio «quia omnia continet» la matrice delle proporzioni del Duomo e vi inscrive un esagono, un quadrato e un triangolo equilatero, con i quali determina la larghezza e l’altezza del tempio, gli elementi modulari e i punti nodali di un reticolo quadrangolare, i cui vertici individuano i dodici punti zodiacali delle case e il percorso annuale del sole, della luna e dei pianeti.

Anche Leonardo, raccontano le preziose note di Valentini, si servì di un modello zodiacale nel delineare lo schema compositivo della Cena, nella quale i dodici discepoli sono disposti nell’ordine dei dodici segni dello zodiaco in quattro gruppi di tre ciascuno con al centro Gesù Cristo, il sole, il Sol Justitiae dei primi cristiani. La stessa sintesi dell’universo è suggerita nel secondo canto del Paradiso, quando Beatrice espone a Dante la dottrina delle infuenze celesti. «L’alzato della chiesa e la rappresentazione della cosmografia celeste si identificano così in un modello architettonico che è una sintesi del sapere, fisico e metafisico, secondo la corrispondenza esistente tra i pianeti e le Arti liberali del Trivio e del Quadrivio, ovvero tra i pianeti e le Intelligenze Angeliche. Anche Dante, nel Convivio, propone di assegnare i cieli di Luna, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno e Sole rispettivamente alle discipline di Grammatica, Retorica, Dialettica, Geometria, Astronomia, Astrologia e Musica, mentre, nel canto secondo del Paradiso, i cieli di Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno sono assegnati rispettivamente alle gerarchie spirituali degli Angeli, degli Arcangeli, dei Principati, delle Potestà, delle Virtù, delle Dominazioni e dei Troni». Mentre il matematico metteva a punto il suo schema, come anime dantesche religiosi, nobili, maestranze, operai e cittadini di ogni ceto attendevano dunque di conoscere il destino dell’opera.

La disputa e gli undici dubia
Il primo maggio 1392 fu convocata una disputa solenne, con il rituale in uso nelle facoltà di Arti medioevali, alla presenza di tutti i maestri ingegneri e architetti e delle autorità della Fabbrica. Tra gli altri, il maestro tedesco Enrico Parler, il più tenace oppositore degli architetti lombardi, lavorò alacremente alla costruzione di un modello del Duomo così come l’avrebbe voluto, e che la Fabbrica espose fin dalla sua ultimazione, il 2 febbraio, in un luogo ben accessibile al pubblico.

In quegli stessi giorni il maestro carpentiere Simone da Cavagnera tirava in lungo nell’esecuzione del modello ricavato dai disegni di Gabriele Scovaloca che la Fabbrica aveva commissionato a lui e a Simone da Piacenza fin dal mese di ottobre. Il modello venne consegnato appena una decina di giorni prima della discussione generale. E sarà quello vincente. «Odorava ancora di stucco e di vernice, il 1° maggio seguente, quando si tenne la famosa adunanza, nella quale il modello di maestro Simone venne utilizzato per la disputa, insieme con quello di maestro Enrico e infine, il 1° settembre, assolta felicemente la funzione dimostrativa della proposta di Gabriele, ne venne deliberata la sistemazione all’interno della chiesa cattedrale di S. Maria Maggiore», «in un luogo decoroso e occultato alla vista». In quei mesi furono discussi undici dubia (anche nel canto XIII del Paradiso, nel discorso che san Tommaso rivolge a Dante, c’è l’enunciazione di un dubium di geometria euclidea: «se del mezzo cerchio far si puote / triangol sì ch’un retto non avesse») che rappresentavano le questioni più controverse, con un esito nei voti delle delibere di unanimità quasi totale.

È a questo proposito degno di nota, scrive Valentini, «il fatto che i deputati, mentre indugiano con quelle disposizioni particolareggiate, rivolte al modello di Simone, non spendono nemmeno una parola per il modello di maestro Enrico, che doveva essere un bell’esempio d’arte gotica tedesca». Così come degno di nota fu il cerimoniale che i deputati riservarono al matematico piacentino una volta che egli ebbe consegnata la sua perizia: al pagamento dell’onorario (dieci fiorini in «grossis novis», un compenso di tutto rispetto) seguì una delegazione dall’Arcivescovo, con maestri e ingegneri in abito da cerimonia per esporgli come si era deciso di provvedere per il seguito dei lavori. E rispondere così con tutti gli onori all’uomo che aveva pacificato il cantiere, ridato ai canonici la speranza e tranquillizzato il Duca, che teneva al nuovo tempio come al segno della sua fortuna politica e militare. Un matematico, che con la sua fede nella scienza aveva rappresentato l’uomo della Provvidenza per l’ultima grande cattedrale gotica del Medioevo e la sua grandiosa turba d’anime orante e all’opera per innalzarla.