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12.12.2024

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La fede che si fa cultura
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29 Novembre 2017

La fede che si fa cultura

IL TIMONE n.45 – Luglio-Agosto – pag. 48-49  
 
di Giacomo Biffi 
 
Nessun credente può mettere in dubbio l’esistenza e la necessità di una cultura cristiana. Altrimenti si riduce il cristianesimo a pura esteriorità folkloristica o a fatto di coscienza, senza alcuna risonanza oltre la vita segreta dell’individuo. 
 
Il «patrimonio spirituale cristiano» 
Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell’uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti figurative, musica, diritto, folklore ecc.) portano incancellabili in sé i segni della loro origine dalla visione cristiana. Questo è il nostro «tesoro di famiglia». Anche se indubbiamente, in quanto opera dell’uomo, è registrato altresì nel patrimonio di tutta l’umanità, è pur vero che ciò che è nato dalla fede appartiene in modo eminente e più intenso a coloro che condividono la stessa concezione del mondo e la stessa esperienza di vita. Il problema per noi è quello, piuttosto, di ridivenire consapevoli della nostra ricchezza. I nostri «grandi» devono tornare a essere veri e attuali maestri, e devono tornare a essere «nostri». I nostri capo¬lavori devono costituire per noi il nutrimento inesauribile dell’anima. La comunità cristiana deve riconquistare la coscienza degli altissimi valori che, nel corso della sua lunga storia, sono originati dal suo seno e restano perennemente vivi. Va poi notato, a prevenire ogni possibile equivoco e ogni tentazione d’interiore grettezza, che dobbiamo apprezzare e avvalorare come alimento dell’anima ogni rilevante fatto dello spirito nel quale brilli qualche raggio di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque si manifesti. E questa larghezza di spirito ci è suggerita, anzi ci è imposta, dalla più intelligente e adeguata visione del disegno di Dio. Nel pie-no rispetto dei pensieri immanenti e delle intenzioni esplicite di tutti gli autori, anche di quelli che sono stranieri alla nostra fede, noi sappiamo (e vogliamo sempre ricordare) che ogni verità, ogni giustizia, ogni bellezza – in quanto oggettivi riverberi della luce di Cristo, che è la somma di tutti i valori – è sempre anche nostra, e può e deve armoniosamente confluire nell’autentica cultura cristiana. Nella nostra evasione dall’Egitto del «mondo», come già fecero gli ebrei nell’ora dell’esodo, possiamo e dobbiamo portare con noi l’argento e l’oro degli egiziani (cf. Es 12,35). 
 
Gli «elaborati» della cristianità 
Una «cultura» nel senso, per così dire, antropologico-etnologico – e cioè tutto il complesso degli elaborati umani – va riconosciuta 
a ogni raggruppamento di persone che è individuabile come tale. In essa trovano posto le tradizioni, le costumanze, gli istituti, 
le forme di lavoro e di vita, il folklore, i prodotti dell’ingegno e dell’abilità manuale, che una determinata gente riconosce come 
proprio.
Esiste, intesa secondo questo significato, una «cultura cristiana»? Evidentemente la risposta a questa domanda dipende da una 
questione previa: esiste un popolo cristiano percepibile e identificabile? O, che è lo stesso, esiste una «cristianità»?
Già da più di una quarantina d’anni la cristianità è stata proclamata defunta. È un fenomeno, si è detto, di origine «costantiniana», 
che ha raggiunto il suo culmine nel Medioevo e che nel nostro secolo si è del tutto esaurito.
Anzi, con l’affermazione della sua estinzione storica si è accompagnata spesso la proclamazione della sua illegittimità o almeno 
della sua inopportunità di principio.
L’idea stessa di «cristianità», secondo questa ideologia, sarebbe oggi improponibile e la Chiesa non dovrebbe mai mirare a dare 
origine, mediante strutture caratteristiche, a una propria e specifica socialità che la renderebbe un corpo estraneo nel mondo; es-
sa deve solo provocare e sostenere un impegno personale, lucidamente cosciente e del tutto libero da condizionamenti esteriori. 
E si è parlato di «presenza molecolare», come della sola forma accettabile e augurabile d’insediamento dei cristiani nel sociale.
Ma si tratta di una posizione così unilaterale da riuscire del tutto arbitraria. Non è affatto vero che questo sia l’unico modo augurabile di presenza ecclesiale né che sia condannabile il tentativo di dar vita a una comunità cristiana anche sociologicamente 
individuabile.
Necessaria dimensione sociale del “popolo di Dio” 
Almeno tre osservazioni – di genere diverso ma tutte cospiranti a difendere l’idea di un popolo di Dio percepibile come popolo, sia pure sui generis – sono da opporre ai denigratori cristiani della cristianità. La prima è d’indole storica. L’aggregazione dei credenti secondo il modulo originale ed esteriormente identificabile di convivenza intensa e operosa è un fatto che si accompagna a tutta la storia della Chiesa fin dai primissimi tempi. La comunità di Gerusalemme, come appare dagli Atti, e le comunità paoline, come si intravedono nelle lettere dell’Apostolo, sono senza dubbio vere e proprie «cristianità», anche se di minoranza: in esse i discepoli di Gesù vivevano sotto molti aspetti «a parte» rispetto al resto dei loro connazionali e avevano forme associative tipiche e inconfondibili. Non c’è epoca nella quale la Chiesa non abbia dato origine a una qualche sorta di «comunità» tra i suoi componenti. 
C’è poi un rilievo di carattere psicologico-pastorale. L’uomo, in forza della sua stessa natura, tende necessariamente a un’esi-stenza «sociale». Ciò che non è socializzabile e non diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella coscienza della maggior parte dei singoli e alla fine si estingue. Ci può essere forse qualche intellettuale che si ritiene capace di una fedeltà ai suoi ideali che sia puramente individuale, interiore, invisibile. Ma gli uomini comuni -i “piccoli” di cui Gesù parla come dei primi e più sicuri destinatari del suo messaggio (cf. Mt 11,25) – per tener deste le loro convinzioni le devono esprimere in qualche attuazione esteriore e comunitaria, che si imponga all’attenzione anche degli altri. Infine c’è una ragione teologica decisiva. La natura stessa dell’avvenimento cristiano esige che la «comunione» – che è persona-le, trascendente ed eterna – aspiri continuamente e instancabilmente a farsi «comunità», cioè una realtà collettiva, contingente, storicamente determinata.  L’atto di fede chiede – per intrinseco dinamismo – di investire e trasformare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare, sociale. 
 
Una “cristianità” vitale e decisa 
In nessun momento della sua vicenda la Chiesa può, perciò, mancare di dare vita a una «cristianità», secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi, ma che non possono venire meno in assoluto. La nostra «cristianità» potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come un evento privo di continuità nel tempo, senza premesse e senza radici: essa sarà tanto più vitale ed «energica» quanto più sarà avvalorata e ispirata non solo dai principi eterni del Vangelo ma anche dalla continua memoria del suo passato. Come si vede, il rilancio di una «cultura cristiana» così intesa è condizionato dalla ravvivata consapevolezza dell’esistenza di un «popolo cristiano», con la sua storia, le sue consuetudini, le sue feste, le sue opere, le sue multiformi manifestazioni. 
 
La “scala cristiana dei valori” 
Ma c’è una ragione più intrinseca e sostanziale di affermare la legittimità e la necessità di una “cultura cristiana”. L’uomo non può evitare di interrogarsi circa i «valori»; anzi, non può non determinare, almeno nella concretezza delle sue scelte esistenziali, quali siano per lui i «valori» e come vadano gerarchizzati. Quando queste determinazioni sono condivise da tutto un raggruppamento umano che arriva a riconoscere una scala di valori comunemente accettata, sorge e a poco a poco si configura una «cultura». Secondo questa accezione si può, per esempio, parlare di una cultura radicale, marxista, nichilista, eccetera. Ritengo che nessun credente possa in tal senso mettere in dubbio l’esistenza e la doverosità di una «cultura cristiana», a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità folkloristica o a fatto di coscienza, senza alcuna risonanza oltre la vita segreta dell’individuo. Piuttosto il discepolo di Gesù dovrà prepararsi in questo campo ai conflitti e agli scontri. Potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese con chi non crede nell’esaltazione di qualche valore. Ma più frequentemente dovrà registrare – senza stupore e senza panico – le più stridenti dissonanze. Le comunità cristiane devono affrontare a occhi aperti, con serenità e con vigore di spirito, le inevitabili tensioni tra le diverse «culture» che di fatto convivono nell’ambito di una società pluralistica. Noi non dobbiamo e non vogliamo imporre a nessuno né con la forza né con l’astuzia la nostra «cultura», cioè la nostra gerarchia di valori. Ma non possiamo e non vogliamo tollerare che l’imposizione, con la forza o con l’astuzia, di una «cultura» estranea ci snaturi e ci impedisca di esistere e crescere come popolo di Dio, redento dal sangue di Cristo, secondo la visione della vita che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell’atto di fede. ■  

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