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«La propaganda nei cartoon funziona». Aspettiamocene molta
NEWS 28 Dicembre 2021    di Giuliano Guzzo

«La propaganda nei cartoon funziona». Aspettiamocene molta

Il sospetto che certi «aggiornamenti» dei cartoni animati – con la comparsa di personaggi d’identità Lgbt o femminista – non fossero casuali, ma rispondessero ad un preciso disegno ideologico, ecco, già c’era. Ma ora, si potrebbe commentare, ne abbiamo le prove: si tratta di propaganda, e pure di propaganda che funziona. A stabilirlo è uno studio longitudinale uscito sulla rivista Child Development, da poco ripreso dal sito Psypost.org. In breve, con questo lavoro si sono effettuate due ondate d’indagine – la seconda dopo cinque anni dalla prima – su un campione di circa 150 bambini, che ammontavano ad oltre 300 unità all’inizio della ricerca.

Questo arco temporale ha consentito agli autori dello studio di verificare come la nuova «cultura delle principesse» dei cartoon – laddove per nuova si deve intendere, per esempio, Vaiana Waialiki, protagonista di Oceania (2016), al posto di Cenerentola – sia associata ad una minore aderenza alle norme della «mascolinità egemonica» e a una maggiore stima del corpo, da parte dei bambini spettatori o telespettatori. Tradotto in soldoni: la cultura dominante somministrata a colpi di cartoni animati lascia il segno. Funziona, insomma. Difatti il sito Psypost ha subito celebrato questo studio come prova «dell’impatto positivo» che i cartoon di nuova generazione hanno sui piccoli.

Naturalmente, si potrebbero muovere parecchie critiche a questa ricerca – il campione è piccolo, non casuale (quasi il 90% dei bambini sono etnia bianca) e «l’impatto positivo» dei nuovi cartoon nella vita adulta è tutta da vedere, dato che l’età media dei bambini re-interpellati nella seconda ondata dell’indagine era di appena 10 anni –, ma mettiamo pure che essa dica il vero: e allora? Che cosa c’è di strano nel fatto che l’indottrinamento nei bambini funzioni? Ci sarebbe, semmai, da stupirsi del contrario. Non solo. Ciò che fa più tristezza è che ci si serva di prodotti che dovrebbero intrattenere, divertire e far sognare i più piccoli con il fine, ben diverso, di rieducarli.

Una tendenza totalitaria più che televisiva, che non dà segnali di rallentamento, tutt’altro. Prova ne sia l’inquietante panoramica tracciata sulla prima pagina del Foglio lo scorso 22 dicembre dal bravo giornalista Giulio Meotti. Si va dalla Warner Bros, che ha deciso che il terzo episodio della saga degli Animali fantastici non deve dare visibilità il nome dell’autrice – J.K. Rowling, che nei due film precedenti era a caratteri cubitali – a Disney+, che incredibilmente qualifica classici come Lilli e il vagabondo, Peter Pan e Gli Aristogatti come opere per visualizzare le quali occorre un account «da adulto».

Non va meglio, purtroppo, con Amazon Prime che, sottolinea sempre Meotti, ha pronta una nuova Cenerentola, fra fatine afroamericane genderless («la magia non ha sesso») eroine ambientaliste e principi azzurri che si liberano del patriarcato. Si parla persino, tra le novità in vista nel mondo dei cartoon, di un nuovo Pinocchio in stile politicamente corretto. Insomma, aspettiamoci che i cartoni animati diventino davvero, prossimamente, una macchina propagandistica.

Dopotutto, già il sociologo Vance Packard nel suo celebre I persuasori occulti (1957) denunciava, tra le altre cose, la pericolosità di certi programmi per bambini, solo apparentemente innocenti. Solo che a Packard, come ad altri che come lui lanciavano certi allarmi, negli anni si è sempre risposto con l’accusa di essere degli esagerati, gente che vuol vedere a tutti i costi minacce e pericoli anche dove non ci sono. La ricerca uscita su Child Development segna però un passo avanti rispetto a tutto ciò. Adesso sappiamo che la propaganda nei cartoni animati, di fatto, è davvero presente – ancorché ammantata come avente un «impatto positivo» contro la «mascolinità egemonica» – e, negli anni a venire, ce ne sarà sempre più. Le famiglie sono avvertite.

(Fonte)