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La scuola smetta di giocare al ribasso
NEWS 31 Ottobre 2022    di suor Anna Monia Alfieri

La scuola smetta di giocare al ribasso

Ministero dell’Istruzione e del Merito: questo è il nome scelto dalla Presidente del Consiglio, onorevole Giorgia Meloni, per il ministero di viale Trastevere che, come sappiamo, è stato affidato al prof. Giuseppe Valditara. In tutta onestà, in un clima di ragionevolezza e di equilibrio sarebbe stato difficile prevedere la serie di polemiche sul nome dato al Ministero, riguardanti l’aggiunta del termine «merito».

Le forze di opposizione devono compiere il loro dovere, è cosa ovvia. E’ auspicabile, però, che questo dovere – perché di dovere si tratta essendo l’Italia un Paese democratico – sia adempiuto con senso di responsabilità civile e con intelligenza. E’ sentire comune che la ridda di commenti negativi innescata dalla interpretazione, emersa come puntigliosamente pretestuosa, data alla scelta del Capo del Governo non appare fondata.

Innanzitutto la parola merito non vuol dire in alcun modo privilegiare gli studenti più bravi e abbandonare a se stessi i più fragili. E’ stato detto che, con la scelta del Governo, il pensiero di Don Milani sia stato tradito e dimenticato. Tutt’altro: è l’esatto contrario. Chi ha esperienza di scuola sa che gli studenti che formano una classe sono unici, innanzitutto in quanto persone e, conseguentemente, unici per attitudini, capacità, interessi. Compito dell’insegnante, dunque, è quello, proprio usando le parole di don Milani, di fare parti uguali tra disuguali. Premiare il merito non significa (solo) premiare gli studenti le cui prove di verifica ottengono le valutazioni più alte (soprattutto se ciò è avvenuto dopo aver studiato con tenacia): premiare il merito significa valorizzare le capacità di ciascuno, stimolandole, curandole, trovando le strategie più adatte a far sì che anche lo studente con certificazione H, DSA o BES possa compiere serenamente e responsabilmente il proprio percorso scolastico fino, perché no?, alla laurea. E al mondo del lavoro.

Stesso destino di fraintendimento del significato ha incontrato la parola «inclusione». Inclusione significa accogliere ogni studente, porlo nelle migliori condizioni perché possa apprendere conoscenze, acquisire competenze e sviluppare capacità. Troppo spesso, invece, alla parola inclusione è stata associata l’idea di un gioco al ribasso: abbassiamo le richieste, così che tutti gli studenti ottengano voti elevati e magari, la tentazione di desiderarlo è forte, i genitori sono contenti e non chiedono colloqui. Questo gioco al ribasso, però, ha tradito tutti, in particolare i più fragili: gli studenti, infatti, più strutturati hanno potuto colmare le lacune autonomamente “con i soldi di papà”, quelli più fragili, invece, soprattutto se provenienti da famiglie non abbienti, non hanno avuto la stessa possibilità di apprendere e si sono dovuti accontentare di una formazione e istruzione per nulla affatto corrispondente alle reali capacità del ragazzo e alle necessità della vita. Il guaio è che, se la scuola non forma e non prepara (dato e non concesso che la famiglia si renda conto e collabori), il mondo del lavoro fagocita tutto e tutti e il fragile a scuola diventa l’emarginato nella vita, con conseguenze perniciose sulla tenuta sociale di tanti contesti italiani.

Appare quindi necessario che, prima di fare determinate esternazioni, occorra avere un quadro completo della scuola italiana e comprendere quale sia il significato di specifici termini. Al cittadino intelligente deve stare a cuore lo studente, stanno a cuore i genitori, stanno a cuore i docenti, sta a cuore il fatto che i cittadini non vengano ingannati. Purtroppo, anche se molto è stato fatto, negli anni, in particolare sotto la guida dei Ministri Bianchi, Giannini e Fedeli, lo studente fragile è stato abbandonato da una scuola che non ha saputo farsene carico. E’…morto di fame di conoscenza, di formazione, di soddisfazione personale. I governi del passato hanno creato, sicuramente, le condizioni perché tutti potessero accedere all’istruzione, ma non hanno creato le condizioni perché l’istruzione fosse libera, ossia il genitore potesse scegliere la buona scuola pubblica – paritaria o statale – per il proprio figlio. Le scelte fatte nel mondo della scuola hanno fatto sì che i genitori italiani fossero indirizzati alla sola scuola pubblica statale: chi voleva altro, per svariati motivi, anche logistici, o perché rilevava per il proprio figlio la possibilità di una scuola che ne valorizzasse il merito, doveva e deve pagare due volte, per la scuola pubblica statale e per la pubblica paritaria. Certo molto è stato fatto, negli ultimi vent’anni, per scardinare il feudo dell’ideologia, per far comprendere il valore della libertà di scelta educativa sancito dalla Costituzione, ma il cammino prevede ancora l’ultima tappa, ossia realizzare l’effettivo funzionamento, secondo la L. 62/2000, del sistema nazionale dell’istruzione, formato dalla scuola pubblica statale e dalla scuola pubblica paritaria, sotto lo sguardo garante dello Stato. Quest’ultimo, ad oggi, ha sempre ritenuto la scuola come cosa “propria”, strumento inteso a formare i figli come a lui appartenenti e quindi dallo Stato stesso formati. In realtà – secondo la Costituzione Italiana e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – i figli sono dei genitori e l’educazione è una loro prerogativa inalienabile. Lo statalismo imperante nella scuola è funzionale all’ideologia (di qualunque colore), perché la possibilità che le famiglie educhino i propri figli secondo i propri principi, sempre nell’alveo di un servizio pubblico, cioè per tutti, è cosa altamente pericolosa, perché crea gente pensante. Formare le menti è qualcosa di prezioso per chi intende manipolarle.

Inoltre, la libertà di scelta educativa è sempre stata osteggiata dalla burocrazia e dai sindacati. Questi ultimi hanno visto nella scuola pubblica statale il “postificio” a garanzia dei propri tesserati e del proprio peso politico basato sui numeri. E parliamo di posti di lavoro, in realtà, inesistenti: basti pensare che in Italia abbiamo 150.000 cattedre precarie, ovvero un esubero di docenti rispetto alle cattedre disponibili. La burocrazia ideologizzata, da parte sua, ha fatto credere alle famiglie che un allievo nella scuola statale non costasse nulla… menzogna evidente, perché è stato dimostrato, dati del Ministero dell’Istruzione alla mano, con un lavoro fatto insieme alla ministra Giannini prima e con Fedeli dopo, che lo Stato sostiene un costo di circa 10.000 annui euro ad alunno. La narrazione diffusa, invece, e generata dall’ignoranza, è che la scuola pubblica paritaria sia la scuola dei ricchi che toglie soldi alla scuola pubblica statale. E’ stato dimostrato il contrario: la scuola paritaria riceve dai cittadini solamente 500 euro per alunno, rappresentando una potente fonte di risparmio per lo Stato, nell’ordine di 7 miliardi di euro annui.

E’ facile comprendere, allora, come la parola merito non debba spaventare, non debba suscitare oscuri fantasmi del passato. La scuola del merito, la scuola della libertà, la scuola dell’autonomia sarà l’unico antidoto per una società nuova, rigenerata nella sua parte vitale, rigenerata nel pensiero, nel metodo, nell’azione. Soprattutto sarà una società rispettosa dei giovani e non loro ingannatrice: non si abbasseranno i livelli delle richieste a scuola, non si garantirà il sussidio a pioggia se non si lavora. Chissà che il merito non sarà quell’elemento che saprà far svoltare la società italiana e la renderà in grado di affrontare le diverse emergenze senza prestare fiducia a chi propone facili soluzioni demagogiche e populiste. (Foto: Imagoeconomica)

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