È una storia unica quella di Sergio Bresciani, adolescente fuggito di casa per raggiungere l’Africa e combattere per l’amata Italia. L’ha ricostruita Antonio Besana in un libro appena uscito per le edizioni Ares, Il bambino di El Alamein (pagg. 176, euro 15.80). Biondo e con gli occhi azzurri, Sergio sarà non solo «il più giovane soldato dell’Esercito Italiano nella Seconda guerra mondiale», ma – scrive l’autore – anche soldato «pluridecorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare italiana, la Croce al Merito di Guerra e la Croce di Ferro di Prima e Seconda classe tedesca».
Sergio ha solo quindici anni e nel suo orizzonte di adolescente ci sono tre valori alti e preziosi: Dio, Patria e Famiglia; esattamente gli stessi che dalla seconda metà del XX secolo, in un crescendo intellettualmente (e storicamente) disonesto, saranno additati di default come “valori fascisti”. Ecco allora che in un contesto ideologizzato e tossico come quello di oggi, raccontare le eroiche vicende di un ragazzo pieno di buoni sentimenti, mosso solo da amore e dedizione, la cui morte commosse i più alti ranghi dell’esercito impegnato sul fronte, può essere pericoloso come muoversi su un campo minato, lo stesso su cui nel 1942 morì, a soli 18 anni, Sergio Bresciani. A quest’opera di purificazione provvede, con tatto e fermezza, Liliana Bresciani. «Per lui», scrive nel libro la sorella minore di Sergio, «l’amore alla Patria non poteva che essere il prolungamento dell’amore per la famiglia. Gli amici, la gente del paese: li amava e perciò come non poteva sentirsi fiero di essere italiano, come non poteva correre là dove sembrava esserci più bisogno di coraggio per offrire la sua vita, anche se il rischio era grande, per il bene di tutti? Questo, nella sua mente, doveva apparire così bello e affascinante, da non saper resistere». Alle tante Cirinnà che associano un patriota (fa nulla se adolescente) a un fascista (lo stendardo vergato dall’ex parlamentare piddina recante la scritta “Dio-Patria-Famiglia: che vita de merda” è destinato a rimanere una macchia indelebile nella storia repubblicana per i prossimi 50 anni e oltre); ai tanti che, come scrive Antonio Besana, «ignorano che già a partire dal Risorgimento Patria si scrive con la “P” maiuscola», e che con la parola oggi innominabile si deve intendere nient’altro che «il cumulo di tradizioni, di affetti che unisce persone che condividono lingua, origini, storia», Liliana Bresciani in punta di piedi tiene ad aggiungere: «Sergio, con l’ingenuità e la purezza dei suoi quindici anni, con l’aiuto dell’ambiente familiare e religioso e valligiano nel quale era cresciuto, accolse quei valori senza secondi fini, senza inquinamenti ideologici».
Oltre ad essere “puro” ed evangelico (in Pensando patria, poesia composta nel ’74, perfino San Giovanni Paolo II scriveva: «Quando penso “patria”, esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta…») l’amore per l’Italia per Sergio Bresciani risulterà letteralmente irresistibile. L’arruolamento è permesso solo dai 17 anni, ma il ragazzo non può aspettare. Il primo tentativo di fuga risulterà un buco nell’acqua: i Carabinieri lo fermano a Milano e lo rimandano a casa. Il secondo, pochi mesi più tardi, si infrange poco più lontano: da Genova viene nuovamente rispedito dai genitori. È il terzo tentativo ad andare a buon fine. In bicicletta da Vobarno a Salò (dove nel ’24 era nato), poi Milano, quindi Napoli, nascosto sotto i sedili di un treno. Qui, approfittando dell’imbrunire e della confusione del porto, riuscirà finalmente a imbarcarsi per Tripoli.
Le tante lettere spedite alla famiglia testimoniano la voglia di rimanere uniti in tutto e per tutto. Già nella prima missiva dopo la fuga (datata 18 agosto 1940) Sergio parla ai suoi cari con il cuore in mano: «Cari genitori, questa volta ho raggiunto il mio scopo: sono arrivato a Tripoli. Ora mi trovo in Federazione a fare il piantone: sono molto contento. L’Ispettore ha inviato a voi un telegramma: se non avete ancora risposto, vi prego di non richiedermi ancora in Italia; mandate il vostro consenso anche se non siete contenti: vi troverete molto più contenti in futuro. Io non esigo niente, ma se una volta o l’altra vi ricorderete di me con qualche scritto io ve ne sarò molto riconoscente». Nella stessa lettera, palesando tutto il candore dei suoi 15 anni, Sergio si rivolge al caro fratello Italo con il pensiero della bici sottratta: «[…] appena avrò soldi abbastanza per comprarti la bicicletta che ti ho venduto per arrivare al mio scopo te li manderò: sarà il mio primo dovere verso il fratello che amo». Le sue lettere saranno un crescendo di affetto verso la famiglia, come quando si rammaricherà di non poter essere a casa per le feste: «È già il secondo Natale che passo in Africa: non potete immaginare che cosa darei per essere con voi quel giorno, ma una cosa mi trattiene: il dovere. Spero di poter essere a casa per Pasqua». Sergio Bresciani festeggerà il suo diciassettesimo nella città libica di Tobruk, in prima linea. Quel giorno, in una cerimonia solenne, riceverà le tanto agognate stellette sull’uniforme e da quel momento sarà ufficialmente il più giovane soldato del Regio Esercito italiano in Africa.
Nel frattempo la guerra procede. Le truppe italiane, coadiuvate da quelle tedesche del generale Rommel, riescono ad arrivare fino alle porte di Alessandria d’Egitto. Qui le sorti del conflitto cambiano: le schiere britanniche danno battaglia presso una piccola stazione ferroviaria, El-Alamein. I soldati italiani resistono, ma le perdite sono ingenti. È proprio in quello scontro che il camion con a bordo Sergio passa inavvertitamente su una mina. L’esplosione gli trancia una gamba e mentre un chirurgo tedesco si adopererà (invano) per salvargli la vita, il soldato Bresciani si preoccupa di restituire il binocolo all’ufficiale, aggiungendo queste sue ultime parole: «Dì al signor tenente che mi scusi se ho commesso qualche mancanza».
«Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi», fa dire Bertolt Brecht al suo Galileo. Eppure Sergio, figlio della cattolica terra bresciana, è stato proprio questo. Impossibile non pensare al parallelo tra l’adolescente salodiano e il messicano José Sanchez del Rio. Benché canonizzato, anche quest’ultimo è stato un soldato bambino, desideroso di bruciare le tappe per entrare nell’esercito di quei Cristeros organizzati a difesa della fede del suo popolo. Due storie parallele, tragiche, mitiche, commoventi. Capaci di rimescolare spessore, semantica e influenza reciproca del tripode Dio, Patria e Famiglia e rilanciarlo a nuove e più trasparenti generazioni.
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