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L’arte di essere mortali è amare ed essere amati per ri-esistere
NEWS 11 Dicembre 2023    di Fabio Piemonte

L’arte di essere mortali è amare ed essere amati per ri-esistere

Partire, viaggiare, tornare. L’Odissea racconta «questi tre movimenti narrativi ed esistenziali»; «come si fa a nascere (somma di respiro e desiderio) ogni giorno di più, invece di perdere tutto il tempo a provare a non morire». Così in Resisti, cuore (Mondadori 2023, pp. 420) Alessandro D’Avenia, ripercorrendo le pagine del capolavoro omerico, «libro-madre» della sua vita, racconta l’arte di essere mortali. Ulisse non è un eroe come Achille che cerca la gloria in guerra, è un eroe di relazioni. Avrebbe la possibilità di diventare immortale rimanendo con la bellissima ninfa Calipso, invece sceglie di tornare a Itaca dalla moglie Penelope e dal figlio Telemaco, pur sapendo che lo attende un destino di morte, anche se paradossalmente infinitamente più gioioso.

A differenza di «Achille che sovrasta il mondo, Odisseo ne è sovrastato», da re che era diventa un povero mendicante. Ha trascorso dieci a combattere una guerra non sua, ne deve trascorrere altri dieci tra peripezie e naufragi prima di far ritorno da solo a casa. È un eroe della resistenza, che ri-esiste, cioè rinasce anche grazie ai suoi insuccessi e fallimenti, rimanendo fedele al proprio destino, quell’«originaria e originale disposizione che nasce con noi e chiede di compiersi, ma che noi possiamo tradire (per mancanza di conoscenza e/o accettazione di chi siamo), essere spinti a tradire (abbracciando illusioni di destino proposte dall’esterno) o addirittura essere costretti a tradire (per violenza o obbligo)». Solo assecondandolo consapevolmente il destino diventa destinazione, ossia «chiamata, nostalgia di futuro, speranza».

 «Ulisse è ogni uomo, è l’uomo del ritorno, che impara a stare di fronte alle cose che non conosce senza lasciarsi dominare dalla paura di morirne». Inoltre, osserva acutamente D’Avenia, «il mare è il paradosso della nostra odissea: vorremmo evitarlo, ma ne abbiamo bisogno per nascere, cioè per tornare». Come accade per Ulisse, così per noi: «la vita, verità che deve incarnarsi, si incarica di spezzare quelle corazze, per restituirci a ciò che veramente ci appartiene o a cui davvero apparteniamo».

L’Odissea si apre però con un altro viaggio, quello di Telemaco, il cui nome significa ‘colui che combatte da lontano’, il quale si mette in viaggio alla ricerca del padre. È un cammino per diventare adulto, che inizia quando «comincia ad avere il coraggio della solitudine, un coraggio oggi sostituito, non senza conseguenze, dal continuo bisogno di avere un profilo e non un destino, un pubblico e non un amico, per esistere e resistere». C’è poi il «restare e resistere di Penelope; colei che disfa la trama, colei che impedisce alla storia di andare avanti senza Ulisse».

Ulisse compare la prima volta in lacrime nell’isola di Ogigia, in cui la ninfa Calipso (letteralmente ‘colei che nasconde’) lo trattiene, a testimonianza che «l’eroismo comincia dall’ammissione di una mancanza, di un vuoto, da trasformare in lotta e creatività. Sono le lacrime che sgorgano quando ammettiamo a noi stessi un tradimento, il tradimento del destino: il divino in noi, ciò a cui siamo chiamati. É l’eroe dell’amore per il limite. Egli lotta per la vita così com’è; piange, crea e parla al cuore», naufraga, nuota con tutte le sue forze e approda nell’isola dei Feaci. Qui l’accoglie la Nausicaa che, quando s’invaghisce di lui, necessita anch’ella di guarire dall’idealizzazione del suo amore per poter fiorire e maturare.

Alla corte dei Feaci Ulisse racconta in prima persona il suo viaggio in dodici tappe: ve ne sono sei (Ciconi, Ciclopi, Lestrigoni, I morti, Sirene, Scilla e Cariddi) che vorrebbero farlo morire e altrettante sei (Lotofagi, Eolo, Circe, Sirene, Isola del Sole, Calipso) che vorrebbero fargli dimenticare Itaca. Insomma l’eroe deve da un lato combattere; dall’altro resistere. Negli inferi apprende da Tiresia anche della sua morte, oltre che ritornerà in patria. Padre e figlio faranno ritorno nello stesso tempo a Itaca ma faticano a riconoscersi, come tra l’altro marito e moglie; poi Ulisse deve «costringersi all’attesa, a prendere le distanze dall’istinto» rispetto ai Proci di cui vorrebbe subito far strage. D’altra parte «fare ritorno è liberarsi di tutte le illusioni e fare l’opera quotidiana della vita» perché «Itaca si fa nel cuore» ed è radicata nel talamo nuziale di sposi che condividono lo stesso giogo (con-iugi). Nel suo amore autentico per la moglie, Ulisse scopre che l’amore crea e «fa vivere una breve vita eterna, nascendo fino all’ultimo e del tutto. L’arte di essere mortali è sapere per chi e cosa morire».

La vita è allora sì un’odissea, ma nella gioiosa speranza del ritorno a casa, che si manifesta quale costante anelito del cuore di pienezza e desiderio di compimento, nella consapevolezza che «amare è diventare terra per il naufragio dell’altro». Attraverso l’Odissea, l’autore rilegge la propria vita o meglio, come egli stesso sostiene, la vita di ciascuno è letta alla luce del poema omerico, per cui è costante il riferimento anche a note autobiografiche dolenti («Non conosco mare più doloroso dell’amore che sparisce, che tace, che diventa disamore») o liete («Dopo questi naufragi Itaca è emersa dal mio cuore come verità»). La supplica alla mamma celeste di «pregare per noi adesso e nell’ora della nostra morte» è infine, secondo l’autore palermitano, «un manuale condensato dell’arte di essere mortali: essere svegli ora e allora, cioè sempre», consistente nel comprendere che si è da sempre amati da Qualcuno e perciò si è chiamati ad amare nel «qui e ora e nell’ora nel nostro compimento» (Foto: Imagoeconomica).

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