Grande fu il contributo che italiani e italiane animati dalla fede cristiana hanno dato alla Resistenza tra il 1943 e il 1945. Lo testimoniano le storie raccontate da Alberto Leoni e Stefano R. Contini nel libro Partigiani cristiani nella Resistenza. La storia ritrovata (Ares, pag. 536, € 25,00). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo uno stralcio del libro riferito alla vicenda di Luigi Pierobon, nome di battaglia «Dante»
di Alberto Leoni e Stefano R. Contini
Per raccontare di Luigi Pierobon bisogna partire dalla fine della sua vita e cioè dalla sua ultima lettera ai genitori, racchiusa in quel volume della editrice Einaudi che ha segnato intere generazioni di giovani: Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Un volume che era il livre de chevet dei brigatisti rossi (così almeno viene mostrato nel capolavoro di Marco Bellocchio Buongiorno, notte, film del 2003) e c’è da chiedersi che cosa abbiano capito i terroristi di testimonianze come quella di Pierobon. Gli autori di questo volume possono però ricordare il contraccolpo subìto dalla lettura di queste righe e come anche esse abbiano determinato la volontà di iniziare e portare a termine la presente opera:
Il lettore comprenderà come, dopo questa lettura, certe polemiche sulla Resistenza vadano, come minimo, contestualizzate e contenute: e tutto questo volume tende a dimostrare che il desiderio di bene per tutti non fu patrimonio di casi isolati, bensì fu dominante in gran parte di coloro che militarono nella Resistenza antifascista.
Luigi Pierobon era nato a Cittadella nel 1922, primogenito degli otto figli di Giuseppe e Maria Simioni. Una famiglia di modeste condizioni, ma che sacrificò tutto per l’educazione dei figli. Luigi, terminato il ginnasio dai salesiani, si iscrisse al liceo classico Tito Livio di Padova e iniziò a partecipare alle riunioni di Azione cattolica. Proprio su Tito Livio era la tesi con la quale si sarebbe dovuto laureare in lettere, se nel febbraio del 1943 non fosse stato richiamato alle armi.
Per Luigi la vita sotto le armi non fu facile: troppa immoralità, troppe bestemmie dei suoi compagni d’arme lo turbavano. Il 23 febbraio scriveva, dopo una messa al campo organizzata in modo disastroso:
«Ho ripensato alle care messe fucine [della Fuci]. […] Ho pregato con fede e trasporto, nonostante tutto. E mi sforzo di pregare il più possibile: alla sera il Rosario; al mattino una semplice offerta di tutti i passi e le corse della giornata, dell’annullamento della nostra personalità, di tutte le sofferenze fisiche e morali, in espiazione di tante offese, di tante bestemmie che devo udire e a cui non si può reagire».
Eppure, a distanza soltanto di un mese, riuscì a costituire un gruppo di giovani cattolici che erano di testimonianza ai commilitoni.
«Punto fondamentale del nostro programma è che tutte le nostre relazioni devono svolgersi in caserma: qui dobbiamo vivere: qui è il nostro campo di attività. Studieremo assieme le armi, i regolamenti ecc. ci troveremo dopo i ranci; cercheremo soprattutto che altri siano partecipi della nostra amicizia, anzi, della nostra fraternità».
Il 5 aprile 1943 Pierobon superò il corso Allievi ufficiali; pochi mesi dopo, arrivò l’armistizio. Si trovava a Pisa e ritornò a Padova per completare gli studi: evidentemente la lotta contro il nazifascismo non era il suo primo interesse, ma fu costretto a scegliere: aderire alla Repubblica sociale o entrare nella Resistenza. Passato alla clandestinità, il suo nome di battaglia fu «Dante» e ben presto si fece notare per intraprendenza e dinamismo, tanto da diventare comandante del battaglione «Stella» in una brigata Garibaldi. Pierobon non ebbe contrasti con il Partito comunista del quale, anzi, lodò l’efficienza e l’imparzialità. «Perfettamente ligio al Comitato di liberazione nazionale» scriveva allo zio sacerdote, «assegna posti di responsabilità a tutti, purché di buona volontà».
Ciò nonostante, egli sottolineò allo stesso tempo «l’impressione, e molte volte, la certezza, che il lavoro anti-tedesco che adesso esplica questo partito abbia un secondo fine: avere subito, a fine guerra, delle forze in mano e non delle sole armi, per una rivoluzione vera e propria». A riprova del ruolo di guida della sua formazione, sottolineò anche come la «tentazione di lasciare la montagna» dovesse forzatamente scontrarsi con il sentimento verso i suoi uomini: «Il battaglione si sfascerebbe se me ne andassi: per questo sono rimasto». […]
Carismatico e puro di cuore, Pierobon veniva chiamato «il santo» dalla gente della Valle dell’Agno e per questa sua capacità di comando e di attrazione il 15 agosto 1944 venne inviato a Padova a incontrare i rappresentanti del comando regionale e a reclutare altri giovani. Un delatore lo consegnò alla polizia repubblicana e alla morte, dopo le consuete torture.
Proprio in quei giorni veniva ucciso il colonnello Bartolomeo Fronteddu e si scatenò l’usuale rappresaglia fascista. Il 17 agosto Luigi fu condotto nella caserma di Chiesanuova per l’esecuzione. Uscendo dal carcere riconobbe, nella divisa di milite repubblicano, un suo compagno di università e lo abbracciò dicendogli: «Vado alla morte». Davanti al plotone d’esecuzione chiese di essere fucilato al petto, ma gli fu negato. Nessuno poté impedirgli di esclamare all’indirizzo dei fascisti: «Siete servi venduti. Noi moriamo per l’Italia», di stringere il rosario al momento della raffica e di levarlo in alto, in offerta al Signore. In questo, almeno, Luigi fu libero fino in fondo. […]
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