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13.12.2024

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Mani pulite 30 anni dopo: fu vera gloria?
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19 Febbraio 2022

Mani pulite 30 anni dopo: fu vera gloria?

Il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato mentre incassa, per un appalto, una tangente di 7 milioni di vecchie lire. Da lì uno tsunami mediatico giudiziario che ha sconvolto la Prima Repubblica.

Una rivoluzione tradita?

A 30 anni esatti dall’arresto del «mariuolo» (così lo chiamò Craxi), è impossibile non notare come l’entusiasmo con cui la stampa e gli italiani salutarono la pioggia di avvisi di garanzia piovuta sui politici sia completamente scomparso. Azzerato. Non poteva non essere così: la storia della Seconda Repubblica ha evidenziato quanto Mani Pulite non sia stata affatto il lavacro nel quale si ribattezzare la “nuova politica”. Anzi, l’antipolitica sorta col dichiarato scopo di estirpare la “cultura dell’illegalità”, si è dimostrata non solo non meno corrotta ma spesso anche più inetta (se è vero, come scriveva Benedetto Croce, che «il solo politico onesto è il politico capace»). Senza contare ciò che quella stagione ha significato in termini di ricorsi sproporzionati alla custodia cautelare, di gogne mediatiche, di monetine lanciate sui politici, di umiliazioni gratuite, finanche di suicidi.

La disillusione degli italiani sta tutta nel fatto che – a scriverlo è Avvenire – «il “dopo” Mani Pulite non è mai arrivato, almeno in termini di rapporti tra politica, magistratura, informazione», con il risultato che si è fatta solo «la fortuna elettorale del Movimento 5 Stelle […] nato come anti-politico e finito per tre volte consecutive al governo insieme ai “nemici” giurati di un tempo». Quella che per alcuni è ancora oggi una “rivoluzione tradita”, ha portato alla sparizione dei partiti «fondati sulle grandi tradizioni di pensiero dell’Ottocento e del Novecento», a cui quella stagione ha tarpato le ali, soffocandone «lo slancio ideale e democratico». Parola del quotidiano dei vescovi.

I documenti segreti di Bukowski

A leggere le ricostruzioni di questi giorni (non solo dei giornali di centrodestra), la vulgata scaturita dal famoso discorso di Craxi alla Camera, e cioè Mani Pulite come operazione politica tesa a distruggere una precisa classe dirigente, a distanza di 30 anni ha accumulato molte frecce a suo favore. Vediamo.

Nell’opera del dissidente russo Vladimir Bukowski, Gli archivi segreti di Mosca (libro scritto sulla base di documenti inediti copiati avventurosamente nell’Archivio del PCUS, a Mosca, prima che questo fosse definitivamente chiuso) l’autore mostra il finanziamento operato dall’URSS ai partiti comunisti europei, compresi quelli destinati al “compagno Cervetti”, tesoriere del PCI. La pessima abitudine del finanziamento illecito dei partiti, dunque, aveva come scopo principale quello di poter competere con una forza politica finanziata abusivamente da una potenza straniera (e ostile).

Divieto di indagare a sinistra

Ci sono, poi, i più recenti racconti di Tiziana Parenti, il giudice di Mani Pulite che voleva seguire il filone comunista e pidiessino dell’inchiesta, le cui indagini – complice anche uno scontro con il procuratore Gerardo D’Ambrosio – vennero bloccate, episodio che la convinse ad uscire da una magistratura in cui non si rivedeva più.

Anche Vittorio Feltri ha ricostruito, in questi giorni, il fenomeno Mani Pulite, non prima di aver solennemente chiesto scusa ai suoi lettori per avere, all’epoca dei fatti, cavalcato l’onda di quella che oggi definisce una «strage degli innocenti». Feltri, allora amico del pm Antonio Di Pietro, scrive che questi gli confidò che «alle ruberie partecipavano tutti i politici», e alla sua domanda su come mai «voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica», la risposta di Di Pietro fu attendista: «Tempo al tempo, arriverà anche il loro turno». Come andarono le cose è noto: il pentapartito fu spazzato via, la DC e il PSI sparirono e il PDS, scrive Feltri «si accomodò al governo».

La “missione salvifica” del pool

Ancora il 17 febbraio, però, il magistrato Gherardo Colombo, intervistato da Avvenire, insisteva nel dire che «il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone». Una narrazione, quella del membro del pool di Mani Pulite, sempre meno maggioritaria.

Basti pensare a come Vicenzo Caianiello, presidente emerito della Corte costituzionale e ministro di grazia e giustizia del governo Dini, commentò le vicende giudiziarie di quel periodo. Nel suo Istituzioni e liberalismo (Rubettino, 2005), libro con prefazione di Marcello Pera, già diciassette anni fa Vincenzo Caianiello scriveva: «I magistrati che avrebbero dovuto perseguire “fatti” penalmente rilevanti e descritti in fattispecie “tipiche”, perché soltanto questa è la loro funzione, si misero a inseguire “fenomeni” (sostenendo che loro compito era esercitare il “controllo di legalità” su tutti i comportamenti umani, come nei tribunali censori delle costituzioni giacobine) per cui, per compiere la missione salvifica, non riuscirono a sottrarsi alla suggestione di adoperare per un fine diverso strumenti messi a loro disposizione dalla legge soltanto per perseguire notitiae criminis». A recuperare questo significativo stralcio è stato Matteo Forte, storico e Consigliere comunale di Milano, il quale non ha mancato di ricordare anche «l’acclarata violazione dei diritti della difesa» nel processo Craxi, costata all’Italia una condanna da parte della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo.

Craxi, Amicone e certi monosillabi

Al di là di ogni possibile ricostruzione, a giudicare la stagione di Mani Pulite – magari per spiegarla alle giovani generazioni – basterebbe forse un episodio, minore ma eloquente, che vede protagonisti Bettino Craxi, il leader socialista rifugiatosi in Tunisia, e Luigi Amicone, il giornalista e fondatore di Tempi scomparso il 19 ottobre scorso. Nel corso dell’incontro intitolato “Mani Pulite 30 anni dopo. Una storia finita ma non risolta”, Emanuele Boffi, direttore di Tempi, ha raccontato di una telefonata da Hammamet in cui Amicone – noto, tra l’altro, anche per la sua immaginifica e trascinante oratoria – fu costretto alla illiberale mortificazione di rispondere a Craxi a monosillabi: «Luigi sapeva benissimo che quella telefonata era ascoltata, sapeva cioè che quello che avrebbe detto sarebbe finito in qualche maniera sui giornali, sarebbe stato strumentalizzato o utilizzato, anche la cosa più innocente…». Amicone arrivò addirittura a stoppare la telefonata. Nelle sue parole c’è tutta Mani Pulite: «Mi sono vergognato di aver messo giù il telefono. Come è possibile che in un paese come il nostro che si dice democratico dobbiamo aver paura? Paura di parlare, paura di confrontarci e dire quello che pensiamo?». Il seguito dell’aneddoto racconta lo sforzo di un giornale di uscire dalla narrazione a senso unico (cosa allora particolarmente difficile): «Luigi Amicone – chiosa Boffi – ritelefonò a Craxi e gli chiese di scrivere su Tempi. Così la rivista uscì con diversi numeri che riportavano i fax dell’ex leader socialista da Hammamet».

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