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Mons. Rino Fisichella: «Non si puà capire Roma se non si comprende il valore del martirio»
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9 Dicembre 2015

Mons. Rino Fisichella: «Non si puà capire Roma se non si comprende il valore del martirio»

 

 

Per gentile concessione dell’editore San Paolo di Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, proponiamo una meditazione dal libro di mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, I segni del giubileo. Il pellegrinaggio, la città di Pietro e Paolo, la Porta Santa, la professione di fede, la carità, l’indulgenza.


di mons. Rino Fisichella

Per capire Roma […] bisogna comprendere il valore del martirio. Esso non è un’appendice della
vita cristiana, ma ne costituisce il suo punto culminante. Il martire, infatti, vive la piena configurazione a Cristo e con lui si immedesima nell’offerta al Padre. Egli testimonia con la sua vita donata fin nella pienezza la verità della fede che professa e attesta che nulla vi è di più prezioso che l’amore pieno e totale verso Cristo. Il martire, quindi, un segno che provoca ognuno a prendere coscienza di sé, a verificare fino in fondo la libertà che si desidera e a constatare che per amore si può davvero morire.

Il martire non può esserci estraneo. Sappiamo chi è, riusciamo ad individuarne la personalità, ne verifichiamo la portata storica, anche se troppo spesso la sua immagine sembra evocare in noi un mondo che non è più il nostro. Nell’Occidente, soprattutto, in cui la testimonianza di fede sembra essere divenuta sempre più pigra, stanca e a volte ignava, il richiamo al martirio si fa urgente. La forza delle Chiese d’Oriente che fino a ieri hanno conosciuto il carcere, la tortura e la morte solo perché fedeli al nome di cristiani, ha sostenuto in questi anni di incosciente benessere la sempre più ridotta fede dell’Occidente. Questo oggi si guarda attorno smarrito, incapace di pensare che la scelta di fede cristiana possa arrivare fino alla morte, tanto l’ha ridotta ad un facile esercizio settimanale che è entrata inevitabilmente in una profonda crisi. Non è un caso che proprio l’Occidente senta l’esigenza di una nuova evangelizzazione per recuperare l’entusiasmo di una fede debole e spesso assopita. Proprio l’Occidente tuttavia ha bisogno di martiri. Non per cinismo o una visione falsata della vita, ma per una questione vitale che tocca l’intensità del vivere cristiano e per il futuro della Chiesa stessa. Il martire, infatti, è colui che parla agendo. La sua parola è la sua vita, e la sua morte la scelta suprema di libertà. Egli è l’unico che permette di capire la bellezza del morire cristiano che non si arrende e, fino alla fine, sa amare. Questo permette di unire indissolubilmente il martire con la persona di Gesù Cristo che, per amore, dà la sua vita in obbedienza al volere salvifico del Padre (cfr. Gv 3,16; 10,17-18).

Davanti al martire non ci è permesso invocare né il caso, né le circostanze fortuite. Con lui, piuttosto, ci si incontra con una scelta consapevole, chiara e lucida: sapere che il discepolo non è da più del suo Maestro e che se hanno perseguitato lui, potranno perseguitare anche chi crede in lui. Senza questa coscienza la fede non raggiunge la maturità. Per questo, nessuno che abbia preso in seria considerazione l’essere cristiano può pensare che il martirio non gli appartenga.

Il martire segna perennemente la storia della Chiesa che prima ancora di essere “Chiesa di martiri” è per sua stessa natura una “Chiesa martire” per essere corpo dell’unico vero martire. Certo, sorge quasi spontanea una domanda: è ancora possibile essere martiri in un periodo come il nostro in cui regna indisturbata l’indifferenza? La risposta la fornisce con estrema lucidità un testo della Tertio millennio adveniente che non può passare sotto silenzio: «Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri. Le persecuzioni nei riguardi dei credenti – sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo» (n. 37).

Sembra strano dover constatare che proprio nell’epoca della maggior libertà possano esserci ancora dei martiri; eppure è la verità. La Chiesa di questi anni è ancora, fortunatamente, irrigata dal loro sangue. Anche ai nostri giorni, che sembrano così lontani dalla barbarie dei primi secoli, esistono i martiri, perché continua il rifiuto di Cristo e del suo Vangelo. Per grazia di Dio, fino ad oggi la Chiesa può contare sulla loro testimonianza e vedere il diffondersi del Vangelo per l’effusione del loro sangue. Le parole di Tertulliano nel II secolo, secondo cui «il sangue dei cristiani è un seme» che permette il crescere e diffondersi della fede, permangono fino ai nostri giorni in tutta la loro attualità.

Forti pressioni ideologiche, nel corso degli anni, hanno voluto mettere fuori gioco il valore del martirio. Non è un caso che i maestri del sospetto se ne siano interessati direttamente per minarne la credibilità. Intenti come erano a distruggere qualsiasi fondamento, hanno puntato su ciò che più di ogni cosa poteva contraddire le loro argomentazioni. Nella loro folle lucidità hanno visto il martire come il vero nemico, solo perché coerente testimone della verità. È sufficiente rileggere alcune pagine di autori e filosofi moderni per verificare il dramma di questa condizione. Rimbombano ancora nel vuoto dell’abisso in cui cadevano le parole di Nietzsche: «La loro follia insegnava che con il sangue si deve mostrare la verità. Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena anche la più pura dottrina e la muta follia, e desta l’odio nei cuori».

Come non percepire in questa espressione l’invidia di chi non sa amare e non comprende la verità del dono come pura gratuità? Se il nostro sguardo è ancora capace di aprirsi sul contemporaneo, cercando di comprendere i tratti del suo agire, le ansie e le speranze che lo accompagnano, diventerà chiaro perché quella dei martiri «è una testimonianza da non dimenticare». Per grazia di Dio, possiamo riconoscere i volti di nuovi martiri che per il

Vangelo e per la Chiesa non sono indietreggiati davanti alla morte.
Per paradossale che possa sembrare, i martiri sono dei nostri giorni. Giovani, ragazzi e ragazze, uomini e donne di ogni età, sono ancora uccisi, violentati, torturati, scherniti ed emarginati solo perché cristiani. Quanti nomi potrebbero riempire un nuovo e aggiornato martirologio dei nostri tempi. Purtroppo, il secolo XX ha visto un numero di martiri cristiani superiore ai diciannove secoli che ci hanno preceduto. L’ingresso nel XXI secolo, tristemente, sta allungando l’elenco senza lasciar intravedere una diminuzione o almeno una sosta. Ciò che rende spesso inconcepibile questa situazione è il silenzio di tanti che diventa purtroppo complice per l’incapacità a debellare la violenza.

Riproporre oggi con rinnovata forza la presenza dei martiri non equivale a idealizzare il loro gesto per porli sulla scia degli eroi. Il martirio, al contrario, è talmente vicino al vivere comune e al sentire del popolo, da presentarsi come espressione migliore della semplicità dell’esistenza cristiana. La sua forza è nella certezza incrollabile che la fede va presa sul serio, che la verità dell’annuncio cristiano ha realmente un senso definitivo per ogni uomo e che, anche oggi, merita correre il rischio di subire violenza, piuttosto che rinunciare all’amore, l’unico vero criterio che incide nella trasformazione della vita e della società. Davanti al martire, quindi, non si fa retorica. Lo impone il sangue versato che chiede, invece, di sapersi assumere in prima persona la responsabilità della fede.

 

 

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