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No a «madre» e «padre» sulla carta d’identità, i «nuovi diritti» complicano tutto
NEWS 17 Novembre 2018    di Ermes Dovico

No a «madre» e «padre» sulla carta d’identità, i «nuovi diritti» complicano tutto

Il contatore di Word ci indica la cifra 1.499: è il numero delle parole contenute nel parere con cui il garante della privacy ha risposto al ministero dell’interno che aveva chiesto lumi sulla possibilità di inserire i termini «madre» e «padre» (al posto di «genitori») nei moduli per il rilascio della carta d’identità elettronica per i minori, nonché nel relativo documento finale. Millequattrocentonovantanove parole per dire che una modifica di questo tipo, nell’attuale quadro normativo, sarebbe un gran bel problema. Attenzione, non è una critica alla prolissità, anzi si può dire che il parere sia perfino breve, visto il groviglio creato nell’ordinamento da una serie di leggi e sentenze contrarie alla morale naturale, succedutesi una dopo l’altra nell’ultimo mezzo secolo, dal divorzio alle cosiddette unioni civili, fino all’utero in affitto vietato per legge ma fatto rientrare dalla finestra da diversi giudici creativi.

Ma andiamo al parere del garante, che riguardo alla modifica proposta dal ministero – la quale mantiene ovviamente la previsione sui tutori – rileva che essa potrebbe introdurre «profili di criticità nei casi in cui la richiesta della carta d’identità, per un soggetto minore, è presentata da figure esercenti la responsabilità genitoriale che non siano esattamente riconducibili alla specificazione terminologica “padre” o “madre”. Ciò, in particolare, nel caso in cui sia prevista la richiesta congiunta (l’assenso) di entrambi i genitori del minore (documento valido per l’espatrio)». Dopo aver elencato determinate ipotesi (sentenza di adozione in casi particolari, trascrizione di atti di nascita formati all’estero, riconoscimento di provvedimenti di adozione pronunciati all’estero, rettificazione di attribuzione di sesso) il garante fa presente che il rilascio della carta d’identità «potrebbe essere impedito dall’ufficio – in violazione di legge – oppure, potrebbe essere subordinato a una dichiarazione non corrispondente alla realtà [corsivo nostro, ndr], da parte di uno degli esercenti la responsabilità genitoriale».

Davvero interessante il richiamo alla realtà in un documento in stile politicamente corretto, che mai dice in modo esplicito che l’impossibilità a inserire i termini «madre» e «padre» è dovuta proprio all’aver ratificato, o per sentenza o per intervento diretto di sindaci che agiscono contro la legge, l’ideologia Lgbt delle «due madri» e dei «due padri», sempre più propinataci attraverso i maggiori media e che è un’immediata conseguenza del riconoscimento legale delle coppie gay (nonché della “transessualità”: si pensi a una donna che partorisce sentendosi uomo). Difatti, la questione dei documenti è solo la punta dell’iceberg e la si risolve solo se si applicano certe norme che già ci sono (come per esempio il divieto alla maternità surrogata contenuto nella legge 40/2004, oggi applicato al contrario: vedi censura dei manifesti che denunciano l’utero in affitto) e si abroga in primis un’ingiustizia come la legge Cirinnà. Altrimenti il groviglio rimarrà e si andrà accrescendo.

Nel parere del garante si legge ancora che la modifica avanzata dal ministero «rischierebbe di imporre in capo ai dichiaranti», cioè a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale sul minore, «il conferimento di dati inesatti o di informazioni non necessarie [la madre e il padre? ndr] di carattere estremamente personale». In alcuni casi i dichiaranti, per il rilascio del documento del minore, sarebbero cioè obbligati a «dichiarazioni che non rispecchiano la veridicità della situazione di fatto derivante dalla particolare composizione del nucleo familiare».

La suddetta particolare composizione del nucleo familiare che risulta problematica è evidentemente tale perché contraddice la famiglia – fondata sulla differenza sessuale, dunque sull’apertura alla vita – come l’ha pensata il Creatore. Se tutto è famiglia, come la cultura dominante vorrebbe farci pensare, niente è famiglia, e l’idea stessa di matrimonio conseguentemente evapora (Il Timone di novembre ha dedicato un approfondimento, a firma di Tommaso Scandroglio, proprio sugli effetti normativi e culturali delle «nozze gay»). L’esistenza dei problemi di cui sopra – formali e allo stesso tempo terribilmente concreti, che si ripercuotono innanzitutto sulla pelle dei bambini – origina proprio da questo rifiuto: rigetti l’ordine naturale, avrai il caos. Elevi il desiderio soggettivo a diritto, avrai (avremo) in cambio solo arbitrio accompagnato da nessuna certezza del diritto, tanto che risulterà un’impresa impossibile perfino menzionare in dei documenti le più semplici parole che possano essere associate a «figlio»: madre e padre. Due parole unite da una congiunzione pensata dall’eternità.


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