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Nuove generazioni incollate ai videogame… complice il Covid
NEWS 4 Novembre 2020    di Giulia Tanel

Nuove generazioni incollate ai videogame… complice il Covid

In molti hanno lanciato l’allarme: i bambini e i ragazzi sono dipendenti dall’uso di smartphone, tablet, tv, ma anche videogame. Una situazione, questa, che il confinamento tra le mura domestiche legato all’emergenza Covid ha ulteriormente acuito. Per comprendere meglio il fenomeno e la sua portata, il Timone ha contattato Daniele Onori, membro del Consiglio direttivo del Centro studi Livatino.

Innanzitutto, cosa si intende quando si parla di “dipendenza da videogame”?

«L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha descritto la dipendenza da videogiochi come uno spettro ben preciso di comportamenti legati al gaming: una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita; anche quando si manifestano le conseguenze negative dei comportamenti, non si riesce a controllarli; questi atteggiamenti portano a problemi nella vita personale, familiare e sociale, con impatti anche fisici, dai disturbi del sonno ai problemi alimentari. Il 25 maggio 2019, i 194 membri dell’OMS hanno riconosciuto definitivamente il “gaming disorder” come una malattia mentale, inserendola ufficialmente nell’ICD-11: disposizione che entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio 2022».

Quali sono le percentuali di incidenza del fenomeno tra bambini e adolescenti?

«In Italia, secondo l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus, su un campione di 11.500 adolescenti, tra i 14 e i 19 anni, il 36% dei ragazzi gioca circa 1,5 ore al giorno e l’11% dalle 3 alle 6 ore quotidiane. Un abuso di tali dispositivi si è rivelato essere ancora più rilevante tra i più piccoli, nella fascia 11-13 anni: il 50% gioca in media 1,5 ore al giorno, il 15% dalle 3 alle 6 ore e il 4% più di 7 ore».

E quali sono i campanelli d’allarme cui i genitori dovrebbero prestare attenzione per riuscire a intercettare precocemente una possibile dipendenza in tale ambito?

«Se il bambino si isola, non ha contatti né con i genitori né con i coetanei, non parla e non comunica ciò che pensa preferendo restare rinchiuso nella sua stanza a giocare tutto il giorno, è il momento di preoccuparsi. In sintesi, si può parlare di dipendenza da videogame quando il giocare: impatta negativamente sulla propria sfera personale, sociale e familiare; esercita sul videogiocatore un bisogno difficilmente governabile; prende il sopravvento fino ad annullare gli altri interessi della vita. Se più sintomi si manifestano nel bambino, la cosa migliore è portarlo da uno specialista perché possa valutare le sue condizioni e fornire indicazioni utili per combattere la dipendenza da videogiochi.

In ambito educativo, ad ogni modo, già don Bosco insegnava che la migliore strategia è la prevenzione e personaggi immersi nel mondo tecnologico come Steve Jobs erano i primi a tenere i propri figli lontani da cellulari, tablet e pc. A livello concreto, a suo giudizio, quali limiti temporali dovrebbero mettere i genitori rispetto all’uso giornaliero delle tecnologie, in base alle varie età?

«Uno studio dell’American Academy of Paediatrics (Accademia americana dei pediatri) raccomanda di tenere i bambini sotto i 18 mesi totalmente alla larga da uno schermo, seguito da un massimo di un’ora al giorno fino a cinque anni. Non c’è un numero di ore suggerito per i bambini dai 6 anni in su: 60 minuti, magari divisi in due blocchi da 30, vengono spesso considerati un limite ragionevole. Ma ovviamente tutto cambia a seconda dell’età e da bambino a bambino. Bisogna però rendere consapevoli i propri figli del fatto che i videogiochi sono un passatempo divertente ma non l’unico, e per questo occorre intervallarli con diverse altre attività. Un uso equilibrato e sano dei videogiochi non prevede il loro utilizzo come “baby sitter passivi”».

A quanto detto fino ad ora si somma un altro aspetto: la qualità dei videogiochi odierni. Quali sono, a suo avviso, i criteri di scelta da seguire nell’acquisto?

«È importante scegliere videogiochi adatti, sia per età che per contenuti, alle necessità dei figli, facendo riferimento al sistema PEGI (Pan European Game Information: Informazioni Paneuropee sui giochi). È il primo sistema europeo di classificazione dei videogiochi in base all’età e al contenuto. Grazie a questo sistema, sulle confezioni dei videogames è possibile notare una serie di simboli che identificano l’età e mettono in guardia sul contenuto».

Un’ultima domanda, forse scomoda. Capita spesso di notare che sono i genitori stessi ad avere sempre in mano il cellulare e ad aver bisogno di guardare la televisione o navigare sul web. In questi casi, com’è possibile sensibilizzare a un buon uso della tecnologia?

«Innanzitutto è fondamentale condividere alcune regole per un utilizzo responsabile. Per gli adulti consiglierei di monitorare il tempo trascorso davanti allo smartphone. A volte, avere un’idea del tempo trascorso online può portarci a riflettere e a cambiare le nostre abitudini. Un ulteriore accorgimento potrebbe essere quello di salvaguardare zone “off line” in casa, ad esempio: “Nessun telefono a tavola”, “I compiti si fanno senza Facebook” e “A letto senza tablet”, e a queste regole nessuno in famiglia deve esserne esente. Ogni famiglia deve trovare il proprio set di regole, non c’è nessuna ricetta magica. Ma la comunicazione tra genitori e figli non va messa in secondo piano, né lasciata al caso, poiché rappresenta davvero un’occasione preziosa di comprensione e di ascolto reciproco».


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