di Marco Roncalli
Primogenita dei sette figli di Maria Marchesi e di Odoardo Focherini, Olga Focherini presenta in un libro postumo la figura del padre dopo aver trascorso gran parte della sua vita, unitamente ad altri famgliari, a ricostruirne l’avventura umana e spirituale. Una vicenda oggi ben documentata da un fondo archivistico riconosciuto «d’interesse storico particolarmente importante» dalla Soprintendenza Regionale dell’Emilia Romagna per i beni culturali, e che costituisce sia una testimonianza preziosa per lo studio della Shoah, sia un materiale utile per comprendere l’itinerario di Odoardo.
Nato a Carpi nel 1907, figura di rilievo nell’ambito dell’associazionismo cattolico, dal 1942 – com’è noto – era entrato nella Delasem, la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei: rete che fornendo documenti falsi, soldi e collegamenti in Svizzera, soccorse oltre un centinaio di ebrei aiutandoli a espatriare. Scoperto e arrestato l’11 marzo 1944, Focherini, dopo esser transitato nei campi di Fossoli, Gries, Flossenbürg, morì nel lager di Hersbruck il 24 dicembre 1944, a 37 anni.
Ciò che colpisce nel nuovo libro firmato da Olga Focherini (mancata nel 2008) e curato dal figlio Odoardo Semellini (che ne ha raccolto le testimonianze orali e scritte fedelmente registrate nell’archivio di famiglia) è non solo lo sguardo di una figlia capace di restituirci il profilo paterno nei suoi tratti di cristiano autentico, ma anche di descriverne imprese nate insieme ad altri uomini e donne di eguale generosità (cominciando dalla moglie Maria, sovente trascurata nelle cronache relative al marito, sino agli altri membri della Delasem), sottraendosi dunque alle diffuse celebrazioni dell’«eroe solitario».
Non a caso Moni Ovadia nella prefazione sottolinea che qui «come in pochissime altre opere, si capisce come l’urgenza di tendere la mano al prossimo perseguitato non nasca da uno status di eccezionalità ma piuttosto da un impulso di insopprimibile umanità».
«Credo che la testimonianza di Olga getti una luce ancora inedita sulla figura di Odoardo Focherini, diversa dalle pur importanti celebrazioni che gli sono state tributate negli ultimi anni», scrive a ragione Odoardo Semellini introducendo il volume che, con una frase apparsa ai tempi delle leggi razziali in Italia, nel ’38, è stato titolato Questo ascensore è vietato agli ebrei (Edb, pp. 142, euro 8). Infatti, a stagliarsi lungo i capitoli è «un uomo normale, come tutti, che si lascia andare, che sta male, che piange, che è combattuto tra le speranze del ritorno e il timore di non tornare più» e che anche in questa sua fragilità «può essere proposto come esempio a tutti».
Un racconto, quello di Olga, che alimenta una memoria trasmessa coniugando un costante, commosso rimpianto, e lontani momenti di serenità mai dimenticati. Una storia che attraversando il tempo lambisce ormai almeno tre generazioni invitate a confrontarsi su una scelta non comune nella tragedia che colpì l’Europa settant’anni fa. Una scelta che ebbe come esito una morte, si è scritto, per setticemia. «Ma quale setticemia! La diagnosi la facevamo noi, non c’era mica un medico! Per esempio, quando facevano l’appello, col freddo che c’era, sai quanti ne sono caduti! E noi scrivevamo congestione polmonare», così Vittore Bocchetta, un superstite compagno di Focherini nel lager, scriveva a Olga nel 1995. Aggiungendo che si moriva per la vita che si faceva, il freddo, la fame, gli stenti.
Rispondendo nel libro a una lettera inviata dal padre alla madre: «Talvolta ho l’impressione… di sentire l’accorato interrogativo tuo e dei piccoli che pesano come tremendo rimprovero», scriveva Odoardo a Maria, da Fossoli, il 26 luglio 1944. Come a chiedersi, appunto: «I bambini mi capiranno?». Osserva Olga: «Credo che, alla fine, tutti abbiamo capito, grazie anche a mia madre…».
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