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Per uscire da una scuola «senza verità» serve coraggio
NEWS 10 Settembre 2022    di Valerio Pece

Per uscire da una scuola «senza verità» serve coraggio

Ha ragione Paola Mastrocola: il problema della scuola non è innanzitutto lo stipendio degli insegnanti (che pure è un problema, ovviamente). Ridurre tutto a quello, come fa certa politica, dovrebbe suonare mortificante per l’intera categoria. A togliere credibilità alla scuola italiana è altro; il collegamento con il reale, per esempio. I progetti di inclusione, cittadinanza, legalità, ambiente, che da lunedì 12 settembre torneranno a riempire le aule scolastiche, se in astratto sono belli e utili, in concreto si traducono spesso in perfetti assist per l’odierno, imperante conformismo culturale. Insomma, proprio mentre si sforza in buona fede di istruire (quando non addirittura di educare), la scuola si accontenta di raccontare solo ciò che non crea disturbo, tirandosi indietro quando l’argomento diventa problematico, ignorando l’elefante nella stanza.

DIRITTI, AMBIENTE, BULLISMO? OK, MA RACCONTIAMO TUTTO.

Qualche esempio? La scuola deve spingere verso l’uguaglianza dei diritti, certo. Ma come la mettiamo con il professore che mercoledì scorso, per essersi rifiutato di usare un pronome neutro verso uno studente transgender, è stato arrestato? Se davvero una persona è ciò che si sente di essere, allora vale tutto, compresi i bagni e gli spogliatoi in comune. (A proposito, appena pochi giorni fa, sulla rivista tedesca ultra progressista Emma, la biologa Christiane Nusslein-Volhard, premio Nobel nel 1995 in Fisiologia e Medicina, ha osato ribadire che «l’idea che le persone possano cambiare sesso è una sciocchezza. Un pio desiderio. Le persone mantengono il loro sesso per tutta la vita, rimani XY o XX»).

A scuola bisogna sensibilizzare all’ambiente, ci mancherebbe. Ma che dire di quel terrorismo psicologico-mediatico che porta sempre più spesso le coppie – per di più dentro un inverno demografico – a non fare più figli per paura di inquinare? Se in Svezia la pratica è ormai diffusa (e vissuta come un imperativo morale, come scelta etica), negli Stati Uniti furoreggiano per le strade gigantesche pubblicità su cui campeggiano scritte come questa: «Il regalo più grande che puoi fare a tuo figlio è non dargli un fratellino». Ecco, se la scuola non spende nemmeno una parola su un’ecologia diventata religione (con i suoi catastrofismi e i sensi di colpa da espiare davanti al dio verde) è poi costretta a girarsi dall’altra parte, imbarazzata, alla notizia shock che tanti giovani – sentendosi in colpa perché hanno imparato che i figli inquinano (ultima grande menzogna) – si fanno sterilizzare.

Il bullismo bisogna fermarlo a scuola, sicuro. Ma una parola da spendere su due uomini che strappano il bambino appena nato alla sua mamma, magari una povera donna indiana costretta a sfamare gli altri figli? Niente, davanti all’utero in affitto, l’atto di bullismo più infame che l’uomo abbia mai potuto ideare, la scuola abbassa gli occhi e passa oltre.

La scuola è contro il razzismo, ovvio. Ma che dire di fronte alla furia iconoclasta con cui si buttano giù le statue di Cristoforo Colombo, Jefferson, Churchill, strappano i libri di Dickens, Shakespeare, Dostoevskij, in ossequio a quella cancel culture dal sapore talebano che vuole sbarazzarsi di autori “razzisti”, “colonialisti”, “schiavisti”? …Molti altri sarebbero gli esempi dello strabismo ideologico (o semplicemente della paura) che attanaglia la scuola.

D’AVENIA, IL GRANDE FRATELLO E LA POESIA.

Per offrire agli studenti le capacità di analizzare il reale (quel senso critico di cui la scuola si riempie la bocca) non servono risposte di comodo, preconfezionate; neanche discorsi rassicuranti, sempre doroteicamente “sulle generali”, serve offrire loro il paradosso, qualcosa che crei attrito, spaesamento. Solo dopo, con tutte i pezzi del mosaico visibili e sul tavolo, si può tentare di ricomporre la realtà. «Penso che per gli studenti sarebbe molto meglio partire dalla contemporaneità. Si rimane sempre indietro di un secolo, nella scuola si vive come dentro una specie di capsula senza collegamento con il tempo presente, mancano i nessi», così lo scrittore portoghese Josè Saramago, un ateo convinto che sulla scuola aveva capito tutto (i nessi mancano anche perché molti insegnanti si abbeverano agli stessi media che lavorano h24 a costruire il conformismo culturale, quello degli asterischi e della damnatio memoriae).

Con i ragazzi si gioca a carte scoperte, affinché si innamorino della complessità delle cose. Alessandro D’Avenia racconta che una volta, dopo una lezione sulla poesia, una studentessa gli disse che avrebbe fatto meglio a leggere meno poesia e a guardare di più il “Grande Fratello”. «Credevo di avere fallito ma mi sbagliavo», scrive lo scrittore, «quella ragazza in realtà mi stava chiedendo di non provocare più la sua libertà, di non portare in classe la differenza tra il bello e il brutto. Mi chiedeva di tornare nel mondo piccolo e brutto della tv e di smetterla di complicarle la vita comoda che aveva scelto».

Dunque, per il semplice fatto che i ragazzi hanno una tremenda sete di senso, una scuola senza coraggio, che ha paura di giudicare la realtà, da questi non può essere presa sul serio fino in fondo. Ciò presuppone una scottante responsabilità nell’educatore, se non altro perché, scriveva Luigi Giussani, «il desiderio può appiattirsi se non trova un oggetto all’altezza delle sue esigenze». Dall’appiattimento allo smarrimento è poi un attimo, con il concretissimo rischio che «il ghiaccio che abbiamo nel cuore» (De Gregori dixit) gli studenti finiscano per scioglierlo molto pericolosamente, magari “stupefacendosi” invece di stupirsi. Addio allora ai cari programmi di inclusione e legalità (compresa quella lotta alle devianze a cui la stessa parte politica interessata agli stipendi degli insegnanti, in un cortocircuito inaudito, ha finito per inneggiare).

LA LEZIONE (SEMPRE ATTUALE) DEGLI STUDENTI DELLO “SPEDALIERI”

Era il 2007 quando Filippo Raciti, poliziotto e padre di due bambini, venne ucciso dalle sassaiole scoppiate allo stadio di Catania a causa di una rivolta contro le forze dell’ordine (dietro cui, lo confermarono i carotaggi giornalistici successivi, si nascondeva un enorme disagio giovanile). Sono passati 15 anni, quindi, dall’appello che gli studenti del Liceo Classico catanese “Nicola Spedalieri” (moltissimi dei quali testimoni dell’accaduto perché presenti allo stadio) lanciarono all’indomani di quei fatti.

All’accorata lettera degli studenti (quasi una preghiera laica) rivendicante una scuola capace di educare al senso della vita, e in cui si implorava «il bisogno di una guida, perché il professore è un modello, e non può limitarsi a impartire nozioni», gli insegnanti risposero con sommo cinismo, seppur ammantato di spirito democratico. «Non possiamo, né vogliamo, darvi delle risposte», così il corpo docenti del liceo catanese, «proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica. Vi rispettiamo troppo per sventolarvi Verità rivelate». Un bicchiere d’aceto di fronte ad una richiesta di senso, lo stesso che anche alla vigilia di questo nuovo anno scolastico si rischia di riservare alle domande, più o meno esplicitate, di centinaia di migliaia di studenti italiani.

IL GRIDO DI GIUSSANI

Che fare allora? Oltre ai Pof, ai Pei, ai Glo e alle Dad, occorrono iniezioni di verità, antidoto alla vera buona scuola. Urge rispondere alla fame di speranza, perché solo chi sa che la sua vita è un progetto sognato dall’eternità può vincere il nichilismo dilagante, e solo chi ha una vocazione può provocarne altre. Occorre, perché no, andare a caccia di persone felici, chiedendo ragione della loro felicità. Occorre che la scuola permetta ai docenti, almeno quelli con il fuoco in pancia, di sentirsi a casa, per tornare a dire, ancora con Giussani, «mandateci in giro nudi ma lasciateci liberi di educare».

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