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Perchè i fautori del «matrimonio» gay possono trovare in Nerone un modello e un patrono
NEWS 10 Agosto 2015    

Perchè i fautori del «matrimonio» gay possono trovare in Nerone un modello e un patrono

di Robert V. Young Jr.*

 

Considerate questo articolo un dotto mea culpa. A lungo ho sostenuto l’impossibilità di contestare il “matrimonio” omosessuale per il semplice fatto che mancano argomenti positivi per sostenerlo. Affermare che un omosessuale non ha diritto a sposare un altro uomo non è diverso dall’affermare che un unicorno non ha diritto a essere un programmatore informatico. La proposizione è intrinsecamente assurda e contestarla significa darle credito illimitato. A riprova di questo fatto, ho sottolineato che mai prima della fine del secolo XX, almeno entro i confini della civiltà occidentale, si è pensato al matrimonio tra due persone dello stesso sesso.

Purtroppo, però, sul secondo punto la memoria storica mi ha tradito. Ecco quel che scrive Svetonio (70-126) nelle Vite dei Cesari, al libro VI, intitolato Nerone: «Avendo castrato il giovane schiavo Sporo e volendo persino cambiarne la natura da maschile a femminile, lo prese in moglie secondo il normale rito matrimoniale con tanto di dote e di velo nuziale». E, continua lo storico romano, «questo Sporo, agghindato come un’imperatrice e trasportato in lettiga, Nerone se lo portò nelle corti di giustizia e nei mercati di Grecia, quindi a Roma nelle botteghe dei ritrattisti, baciandolo di continuo con passione» (VI 28). Malgrado il tono severo di Svetonio, si era, dopo tutto, in un’epoca intollerante, retriva, dal suo resoconto risulta chiaro quanto Nerone fosse in anticipo sui tempi nel riconoscere la “costruzione sociale del gender” e “la mobilità del desiderio”, dunque nell’agire in base a essi, tanto da divenire un “modello” utile agli odierni guerrieri del gender: «Avendo prostituito il proprio stesso senso del pudore a tal punto da avere insozzato quasi ogni parte del proprio corpo, alla fine escogitò una specie di gioco: ricoperto delle pelle di un animale selvatico, si faceva liberare da una gabbia e assaliva i genitali di uomini e di donne legati a un palo, e, dopo avere dato sufficiente sfogo alla propria furia, si abbandonava al suo liberto Doriforo. A questi si concesse come una sposa, esattamente come lui aveva già preso Sporo, imitando persino i gridi e i gemiti delle vergini che vengono stuprate» (VI, 29).

Anche un altro storico romano, Tacito (56-120), dice (purtroppo in termini analogamente obbrobriosi) che Nerone, «il quale non si era negato alcuna forma di depravazione, si unì in matrimonio a uno di quei degenerati noti come “pitagorei” con solenne rito nuziale» (Annali, XV, 37). Né Svetonio né Tacito condannano, comunque, tutti gli atti di Nerone e la loro approvazione segna un’altra di quelle caratteristiche del suo regno che ne farà poi il beniamino degli attivisti dell’uguaglianza di gender. Dopo avere narrato del grande incendio che distrusse gran parte di Roma nel 64, Tacito precisa che il popolo aveva cominciato a sospettare Nerone di esserne stato il mandante: «Fu così che per soffocare queste voci Nerone incolpò e condannò a pene di crudeltà particolarmente sottile certi uomini disprezzati per i loro comportamenti oltraggiosi che la plebaglia chiamava cristiani. […] Un gran numero di loro fu condannato non tanto per l’accusa di avere appiccato l’incendio quanto per l’accusa di odiare il genere umano. E ai loro supplizi si aggiungeva lo scherno, dal momento che venivano ricoperti con pelli di animali selvatici e dilaniati dai cani, oppure appesi a croci o preparati per il rogo così che, quando la luce del giorno calava, si dava loro fuoco illuminando la notte» (Annali, XV, 44).

A onore del vero, Tacito ammette che la barbarie di Nerone era tale da suscitare pietà persino nei “colpevoli” cristiani. Eppure lo zelo di Nerone non mancherà di suscitare l’attenzione degli attuali custodi della tolleranza e di quegli attivisti che vogliono esser certi di bandire l’odio dal mondo. Nerone avrebbe infatti trovato una punizione certamente più adatta dei volgari 135mila dollari di multa comminati dal ministro del Lavoro dell’Oregon, Brad Avakian, ad Aaron e a Melissa Klein, titolari di una pasticceria. In confronto alla “sofferenza emotiva e mentale” che i Klein hanno inflitto a Rachel e a Laurel Bowman-Cryer (i nomi non me li sto inventando) rifiutandosi di preparare una torta per il loro “matrimonio” lesbico, la distruzione dell’azienda di una famiglia con cinque bambini e quella misera sanzione pecuniaria sembrano una semplice “bacchettata sulle mani”. Su come reprimere l’odio e l’intolleranza e Brad Avakian – e se per questo pure il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy – avrebbe certamente qualcosa da imparare dall’imperatore Nerone. Dopo tutto, cos’è il destino di cinque bambini quando sono in gioco i sentimenti feriti e la dignità di stili di vita alternativi?

Ovviamente sarebbe più umano, più prudente, seguire il programma moderato di Plinio il Giovane (61-113), governatore romano della Bitinia e del Ponto mezzo secolo dopo Nerone, durante il regno di Traiano (53-117). Nel resoconto concernente i rapporti con i cristiani che inviò all’imperatore (Lettere, X, 96), Plinio dice di avere esposto immagini degli dèi e di avere offerto loro incenso e vino di modo che coloro che erano accusati di essere cristiani fossero costretti ad adorare gl’idoli e «in più a parlare male di Cristo» («praeterea male dicerent Christo»). Dato che nessun cristiano avrebbe compiuto quei gesti, chi lo avesse fatto sarebbe stato scagionato dall’accusa di essere cristiano. Oggi il mondo secolarizzato ha modi equivalenti per costringere i cristiani ad adorare gli dèi e l’imperatore: corsi di addestramento alla diversità, lezioni di gestione della rabbia, campi di rieducazione… e di pasticceria nuziale. Per ora queste procedure non sono ancora state messe in atto, come invece lo furono quelle di Plinio, con la minaccia della pena di morte («supplicium minatus»). Ma chi può sapere cosa riserva il futuro?

Nonostante la sua tolleranza facilona, Plinio, esattamente come i suoi contemporanei Tacito e Svetonio, precisa, in quella stessa lettera inviata all’imperatore, di avere trovato nel cristianesimo una «smodata superstizione viziosa» («superstitionem pravam et immodicam»). Plinio confermò le informazioni che aveva raccolto interrogando degli apostati e attraverso le risposte ottenute da due ragazze schiave chiamate diaconesse («ministri») che sottopose a tortura («per tormenta»: anche la moderazione ha i suoi limiti). E questa è la spaventosa verità che scoprì «sulla tenacia e sull’ostinazione inflessibile» («pertinaciam […] et inflexibilem obstinationem») dei cristiani: «Questa fu la somma di tutte le loro colpe o errori: erano soliti incontrarsi prima dell’alba di un giorno fisso e cantare un inno a Cristo come a un dio, impegnandosi vicendevolmente a non fare il male, a evitare i furti, le rapine e gli adulteri, a non infrangere le promesse e a non rifiutarsi di restituire un prestito. Dopo avere fatto queste cose, era loro usanza, una volta che si erano separati, riunirsi di nuovo per assumere del cibo: solo del comune, innocente cibo».

Di fronte a tanta depravazione, la moderazione e la tolleranza di Plinio sono, senza dubbio, encomiabili. Eppure, come qualunque progressista illuminato può vedere, i cristiani costituiscono un’ovvia minaccia alla stabilità dell’ordine sociale giacché si rifiutano di adorare gli dèi – Eros e Afrodite, per esempio, così importanti per i tolleranti cittadini moderni – e l’imperatore, quello che anche oggi fornisce il pane e i giochi circensi. Per questo non dobbiamo scordare il salutare esempio fornito da Nerone. A denti stretti lo ammiravano alla loro maniera anche gli antichi cristiani. Lo storico Eusebio di Cesarea (263-339), per esempio, riconosce a Nerone il merito di essere stato «il primo degli imperatori mostratosi nemico della religione divina» (Storia eccelesiastica, XXV) e cita Tertulliano là dove dice: «Ci gloriamo persino di un tale iniziatore della nostra condanna. Chi infatti lo conosce, può comprendere che nulla è mai stato condannato da Nerone a meno che non sia stato qualcosa di molto buono» (Apologetico 5, 3).  Riconoscono insomma che quell’imperatore sapeva ciò che stava facendo.

Nerone sembra essere dunque il patrono ideale del “matrimonio” gay,
che, come egli ben sapeva, ha poco a che fare con “l’eguaglianza nuziale”, ma che invece è uno strumento indispensabile per sopprimere una volta per tutte la superstizione cristiana. È ignobile che gli uomini e le donne moderni che stanno dalla parte giusta della storia debbano ancora lottare contro questo ostacolo che impedisce la creazione di una società amorevole, tollerante e priva di odio, fatta di diversità illimitata e di eguaglianza assoluta! Ecco dunque le mie “scuse” per avere pensato che il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso non avesse precedenti storici. Gli attivisti di oggi hanno un modello che fa meravigliosamente al caso loro in un uomo il cui atteggiamento nei confronti della sessualità umana e della morale cristiana ha anticipato il loro. Quanto alla mancanza di argomentazione razionale, ebbene Nerone mostra che non è affatto necessaria quando il potere di un governo e, nella nostra epoca, il peso dell’opinione delle élite stanno dalla parte giusta.

traduzione di Marco Respinti

* Robert V. Young Jr., nato nel 1947, è docente di Letteratura rinascimentale e di Critica letteraria nel Dipartimento d’Inglese della North Carolina State University di Raleigh. Dal 2007 dirige Modern Age: A Quarterly Review, il più influente periodico culturale conservatore degli Stati Uniti, pubblicato dall’Intercollegiate Studies Institute di Wilmington, nel Delaware, e fondato nel 1957 da Russell Kirk (1918-1994). La versione originale di questo articolo, che qui si riproduce con il permesso dell’Editore e del direttore, è stata pubblicata il 23 luglio 2015 con il titolo "Saint Nero, Patron of Gay Marriage" sul quotidiano cattolico online statunitense Crisis Magazine: A Voice for the Faithful Catholic Laity (clicca qui), diretto a Bedford, nel New Hampshire, da John M. Vella.