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Come ripensare il Sessantotto? Ce lo spiega il filosofo
NEWS 8 Gennaio 2019    di Ermes Dovico

Come ripensare il Sessantotto? Ce lo spiega il filosofo

Sabato 19 gennaio si terrà a Milano, presso il centro culturale Rosetum, il convegno intitolato «Ripensare il Sessantotto». Secondo programma, i lavori saranno introdotti da monsignor Luigi Negri, cui faranno seguito le relazioni del docente di sociologia Giancarlo Rovati, del docente di filosofia morale Paolo Pagani, del giornalista Luca Del Pozzo e infine di Sante Maletta, professore associato di filosofia politica all’Università di Bergamo. Il Timone ha intervistato il professor Maletta per capire meglio i temi che verranno trattati.

Professor Maletta, il convegno che si terrà il 19 gennaio è una prosecuzione del lavoro iniziato l’anno scorso e volto a ripensare criticamente il Sessantotto, secondo una prospettiva filosofica comprensibile a tutti. L’anno scorso c’era al centro la riflessione sulla modernità con una particolare attenzione al tema dell’infinito: per chi era assente, può dirci perché?

Il seminario del 2018 si è concentrato sulla modernità pensata innanzitutto come una questione aperta. È ciò che tutte le posizioni moderniste o tradizionaliste non comprendono in quanto partono dall’idea che la modernità sia qualcosa di ben definito e tutto ciò che resta è da approvare o condannare. E invece ci sono diverse modernità in tensione tra loro. A differenza di ciò che sostiene una certa vulgata intellettuale oggi predominante, la prima modernità non porta in sé una carica irreligiosa. La maggior parte dei pensatori sono cristiani di diverse confessioni che, di fronte al passaggio epocale che vivono, si pongono il problema di rifondare l’umanesimo cristiano medievale (che è stato un umanesimo teocentrico) su nuove basi.
Parlare della modernità a partire dal tema dell’infinito – e in particolare dall’infinito inteso come perfezione – significa riattivare una certa tradizione moderna, che Augusto Del Noce ci ha insegnato a riconoscere a partire da Cartesio sino a Rosmini, passando per Malebranche e Vico. La modernità di questi pensatori sta nella consapevolezza che nel rapporto con l’infinito come perfezione (cioè con Dio) si giocano le sorti del soggetto. In altri termini il finito (l’essere umano) si costituisce nel rapporto con un infinito che lo abita. Il problema è che in seguito ha prevalso un’altra concezione dell’infinito che ha portato la modernità a identificarsi sempre più con processi di secolarizzazione che consideravano il cristianesimo e ogni religione o come un nemico da combattere o come qualcosa di buono dal punto di vista culturale e morale, da superarsi però attraverso la filosofia. Da qui l’idea (fallace) che tra l’essere cristiani e l’essere moderni ci sia un’incompatibilità.

Nella presentazione dell’incontro di quest’anno scrivete che il Sessantotto ha segnato il passaggio tra moderno e post-moderno. Che significa per la nostra realtà concreta e perché è importante capire culturalmente questo passaggio?

Dal punto di vista culturale il Sessantotto nasce come reazione a una forma di vita in crisi in quanto non crede più nei valori che considera fondativi. Le società occidentali del secondo dopoguerra inseguono un unico sogno che attraversa le tradizionali barriere socio-culturali e il contenuto di tale sogno è determinato dall’American way of life. Diventa ben presto evidente che la realizzazione di tale sogno è incompatibile con la lista delle virtù e dei vizi (di lontana origine biblica) tipica delle epoche precedenti. Il capitalismo entra in una nuova fase: non ha più bisogno di onesti lavoratori sobri e affidabili ma di consumatori intemperanti, cioè incapaci di moderazione. A farne le spese sono le istituzioni tradizionali, soprattutto la famiglia.
Nel suo aspetto più autentico il Sessantotto è una denuncia del moralismo dei padri, delle loro incoerenze e ipocrisie. Nel suo spontaneismo tale movimento si fa però portavoce di istanze contraddittorie: si dice anti-consumista ma contribuisce alla distruzione definitiva delle virtù tradizionali senza essere capace di fondare una nuova morale (da qui il suo esito nichilista). Non riesce ad esempio a comprendere come il turbo-capitalismo si appropri ben presto delle icone della cultura pop e dell’immaginario rivoluzionario per i propri fini.

Al convegno del 19 gennaio lei terrà una relazione intitolata «L’altro Sessantotto: Praga e il dissenso». Ci può anticipare qualcosa?

Non c’è stato un solo Sessantotto, appunto. Se ci si concentra su ciò che accadde nelle città europee oltre la Cortina di ferro troviamo che le dissomiglianze con il Sessantotto occidentale sono più profonde delle analogie. Anche nei paesi comunisti troviamo i tratti caratteristici della cultura giovanile dell’epoca: gli hippies, la musica rock, gli happenings di musica e poesia formano il panorama di una cultura underground assai simile a quella occidentale. C’è però una grossa differenza: l’avversario non è costituito da una cultura borghese che si è lasciata soggiogare dal sogno consumista pur ammantandosi ipocritamente di una morale tradizionale. L’avversario (il regime comunista) è figlio di una rivoluzione che intende essere totale: economica, culturale, morale.
I sessantottini dell’Europa centro-orientale sono di conseguenza più “smagati” dei colleghi occidentali, hanno già mangiato la foglia e sono assai sospettosi verso l’idea stessa di rivoluzione. A Praga inoltre hanno già sperimentato l’impossibilità di riformare il sistema comunista. Dalla grande disillusione della Primavera di Praga nasce un gruppo di intellettuali che inizia a riflettere sulle analogie tra il sistema capitalista e quello comunista, considerandoli nella loro indubbia diversità come prodotti di una modernità incapace di essere all’altezza delle proprie promesse. Nasce così l’idea del dissenso, la quale identifica non tanto un modo di agire ma un modo d’essere. Se si scava nella cultura ceca degli anni Settanta e Ottanta si riscopre l’idea dalla quale siamo partiti e cioè che il soggetto si costituisce nel rapporto con l’infinito ‒ con quell’istanza assoluta e in ultima istanza ineludibile che abita il cuore umano ‒ e che proprio ciò costituisce l’essenza più autentica dell’Europa. L’esito di tale intuizione dal punto di vista culturale è che non si tratta di fare una rivoluzione ma di riattivare i fili nascosti di una tradizione che risale ad Atene e a Gerusalemme.

Avete previsto un terzo incontro in cui tratterete l’importanza dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. Perché?

Molto brevemente. Karol Wojtyla è un uomo che ha saputo riattivare quei fili nascosti nel mondo contemporaneo. E lo ha fatto col pensiero (è stato un valente filosofo), col magistero ecclesiale e soprattutto con la propria testimonianza esistenziale. Ecco perché ha meritato l’epiteto di “Grande”.


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