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Robert Oscar Lopez non ci sta alla dittatura del gender e per questo rischia il posto
NEWS 17 Novembre 2015    

Robert Oscar Lopez non ci sta alla dittatura del gender e per questo rischia il posto

di Matteo Matzuzzi

 

La posizione di Lopez sul tema è nota da tempo: “Mi fa impressione che si debba usare la scienza per dimostrare che un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà”, disse nell’aprile del 2014 partecipando a un incontro in Italia. “I miei nemici sono le lobby, non gli omosessuali. Sono gli attivisti che diffondono l’ideologia gender, quelli che si sono infilati nella testa di mia madre confermandola in ciò che ha fatto. Per amare i nostri nemici bisogna fare come si fa con gli amici: giudicare con amore ciò che fanno. Se un amico si sta cacciando in un pericolo, se sta sbagliando e non lo correggi, sei responsabile anche tu. Il resto è tolleranza e questa ha solo le parvenze del bene; mente l’amore è forte e quindi può apparire duro”, chiariva in un’intervista al periodico Tempi.

Il peggio sarebbe arrivato di lì a qualche giorno, quando la “campagna” arrivò sulla scrivania del preside, che chiese al docente di presentare tutte le mail spedite nel precedente triennio avente a oggetto temi quali omosessualità e genitorialità. “Per un anno una squadra di periti e studenti ebbe accesso alla mia posta, rendendola accessibile ai miei accusatori”, scrisse in un articolo uscito sulla prestigiosa rivista americana cattolica First Things. Nel frattempo, a Lopez fu vietato di tenere conferenze nel campus, e solo grazie ad alcuni gruppi di studenti della Notre Dame e di Stanford ebbe la possibilità di dire la sua. Gruppi che “sono stati banditi dai comitati per le attività studentesche non appena io ebbi lasciato le loro università”.
Un anno fa, Human Rights Campaign mise online un video di un minuto preceduto dalla sua foto in stile “wanted”: si rendeva noto l’indirizzo di casa di Lopez, il suo contatto e-mail, il numero di telefono privato. Quando la vicenda sembrava essersi chiusa, ecco aprirsi un secondo fronte, quasi fosse una sorta di tela di Penelope destinata a non vedere mai la fine. Questa volta, a finire nel mirino di diversi gruppi lgbt è stata la conferenza “I legami che contano”, tenuta dal docente di letteratura americana alla Reagan Library, quaranta minuti d’auto dal campus universitario di Northridge. Appuntamenti cui gli studenti sono invitati ma non costretti a partecipare. Non appena Lopez ebbe terminato il suo intervento, una studentessa lo denunciava ai superiori della California State University. La giovane era rimasta sconvolta, “in lacrime” per aver udito parole che “avrebbero potuto causare un trauma ai gay e alle lesbiche”. Il calvario riprese immediatamente, con la solita indagine (che sarebbe durata 378 giorni): “Una volta che sei messo sotto inchiesta, si attivano ingranaggi infernali”, quali interrogatori, ricerca e produzione di documenti a discolpa, ansia. E tanti soldi spesi in avvocati e periti di parte. Alla fine, Lopez fu accusato ufficialmente di “discriminazione”, uno dei pochi casi di imputazione che porta al licenziamento. In uno degli interrogatori interni all’università, un membro del board osservò che la conferenza alla Reagan Library era “simile a un raduno del Ku Klux Klan”. Ma quando il professore incriminato riuscì a procurarsi le prove si scoprì la farsa: nessuno degli oratori, in quella circostanza, aveva parlato di questioni riconducibili alla sfera omosessuale. Lopez presentò i nastri delle registrazioni. Così, l’unica persona che ha sollevato – tra lacrime e sospiri – la “questione gay” era la studentessa che aveva denunciato il suo professore.

Ma ciò non è bastato. Lo scorso 16 ottobre, pur davanti all’evidenza, Robert Oscar Lopez si è visto recapitare il rapporto sull’indagine. L’accusa di “discriminazione” era sì scomparsa, ma al suo posto campeggiava su carta intestata quella di aver agito “per rappresaglia” nei confronti della studentessa che lo aveva accusato. In sostanza, il professore non l’avrebbe ritenuta degna di un premio ambito dalla ragazza. E il board della facoltà ha ritenuto più credibile la parola dell’accusatrice rispetto a quella del suo docente. Una saga che a Lopez fa venire in mente solo Edgar Allan Poe e la sua “Discesa nel Maelstrom”: “Per quanto quell’idea suoni bene sulla carta, diventa incomprensibile e persino assurda dinanzi al frastuono dell’abisso”.